Questo poderoso volume si impone, senza dubbio, nella storia degli studi apuleiani, e sarà uno strumento per la comprensione del testo per molti anni a venire. Garantisce questa sua funzione la struttura che gli studiosi gli hanno voluto dare, in quanto il commento tende alla completezza (e sostanzialmente vi perviene, almeno a giudicare con gli occhi di adesso). Tutto ciò che era attinente alla costituzione del testo, alla interpretazione dei passi dubbi e di quelli che posseggono un significato (più o meno verisimile) di carattere ‘allegorico’; tutto quello che ha a che fare con le figure retoriche, con la lingua dell’autore e con la storia della lingua latina: tutto questo, dicevamo, si trova raccolto e discusso nel volume che sta davanti a noi, sì che, più di un commento nel senso tradizionale del termine si potrebbe parlare di una ‘enciclopedia sulla novella di Amore e Psiche’. È un criterio, questo, che noi ammiriamo, ma al quale rimaniamo sostanzialmente estranei: il nostro commento del 1994, che gli editori di Groningen spesso discutono (non lo impiega affatto, invece, e nemmeno lo indica in bibliografia la recente edizione – divulgativa, in verità, – di Lara Nicolini [Milano 2005], la quale, peraltro, lo aveva recensito con molto calore in: Humanitas 1997, pp. 989-991), potrebbe, a un confronto, apparire esile, ma proprio perché era stato eseguito con criteri differenti.
Anche la informazione bibliografica è stata perseguita con la ricerca della completezza, ed il risultato è stato totalizzante: si può dire che nessun contributo sia sfuggito ai commentatori, nonostante il proliferare delle pubblicazioni in tempi recenti e recentissimi. Io per primo mi sono meravigliato a scoprire non solo quante indicazioni bibliografiche si sono aggiunte nei dieci anni che sono trascorsi dalla mia edizione del 1994 (Napoli, D’Auria), che viene a sostituire un mio precedente commento, frettolosamente stampato nel 1991. La bibliografia italiana, così spesso trascurata ai nostri tempi, in particolare dagli studiosi di lingua inglese, in questo volume è tenuta nel debito conto: mi riferisco soprattutto ai lavori di S. Mattiacci (peraltro anche questa completamente taciuta da Nicolini), che si è guadagnata molti meriti negli studi su Apuleio.
Pur non negando la nostra ammirazione per un lavoro così ricco di dati e per una ricerca così sistematica di tutto quello che era possibile reperire, diciamo francamente che il commento soffre della mancanza di una vera e propria introduzione, le 15 pagine che la costituiscono non dicendo, sostanzialmente, nulla di particolare. Il fatto è che gli autori del commento avevano già pubblicato nel 1998, sempre a Groningen, una serie di contributi dedicati, appunto, alla novella di Amore e Psiche che dovevano avere il valore di una interpretazione globale del testo. Ma chi non possiede o non ha letto quel volume del 1998 si trova spesso a disagio, perché i rinvii ad esso non sono sempre perspicui, e si vorrebbo trovare uniti introduzione e commento. Certo, aggiungere altre pagine, quante costituiscono il volume del 1998, ad un libro che già ne contiene 596 sarebbe stato difficile: non sarebbe stato meglio, allora, togliere dal commento quelle osservazioni di carattere abbastanza elementare, alle quali qualunque lettore può pervenire (come l’individuazione di omeoteleuti e di assonanze, la discussione di congetture manifestamente infondate, la segnalazione dei dettagli nella scrittura del manoscritto F, le ripetizioni dei suoni simili e altre cose analoghe)? Ma consideriamo il commento così come si trova davanti a noi.
Nella costituzione del testo gli editori sembrano essere abbastanza conservatori, e, prendendo per base l’edizione di Helm, tornano alla lezione di F più di quanto non abbiano fatto Robertson (la cui edizione rimane, peraltro, di prim’ordine) e altri: questo atteggiamento ha una sua giustificazione, nonostante che Nicolini, sulle cui competenze circa la recensio di Apuleio vorremmo essere maggiormente informati, rimproveri “gli olandesi” di attribuire a F “una auctoritas quasi assoluta” (p. 67). Così in IV 28 gli editori conservano priore digito di F, corretto quasi unanimemente in primore digito. In IV 29 leggono sacra differuntur, con Colvius, perché più vicino alla lezione di F (sacra die praeferuntur) – altri correggono in deseruntur e analogamente, nello stesso passo, pulvinaria perteruntur (F: perferuntur), mentre altri: proteruntur. In IV 30 i commentatori olandesi preferiscono (forse non a torto) tornare alla lezione di F (usurpavit), invece di usurpabit dei dett., accolta da quasi tutti gli editori; poco più oltre, perlata di F è conservato (“after telling the whole tale about her rivalty in beauty”), invece di prolata di Wouwer e di altri editori. In IV 31 è conservato due volte (e giustamente) il testo di F: reverenter, da molti corretto in severiter, e profundi maris … vertice, corretto in profundum maris … vertice. Altrettanto giustamente conservano scies in V 1, corretto da pochi editori in scires. Meno mi convince il passo di V 4, ove i commentatori preferiscono conservare la lezione di F demens sonus, corretta da quasi tutti gli editori in clemens sonus. In V 6 verba cogentia, scritto dalla prima mano di F, è giustamente conservato di fronte ad altre correzioni (es. cohibentia). Non sono convinto, invece, che si debba leggere con F la volgarizzazione grafica sabiis per saviis in V 7 e continuantur in V 31, normalizzato in continantur da Kiessling. In V 21 il passo difficile è stato risolto con una frase nominale e un’interruzione del periodo: tali verborum incendio flammata viscera sororis iam prorsus ardentis. Deserentes ipsam protinus etc., secondo il suggerimento di Hildebrand. La soluzione non mi sembra convincente, soprattutto a causa della collocazione delle parole nella seconda frase; il passo dovrà ancora essere esaminato dagli studiosi. In V 21 (p. 269) la lezione maritus … primusque proeliis Veneris velitatus è conservata dai commentatori, forse con ragione: io avevo seguito, con altri, la lezione di alcuni codici umanistici primisque, per la quale Nicolini esprime una condanna di tipo molto personale (p. 355), accogliendo (come già altri) la correzione di Kronenberg priusque: in realtà, hanno ragione i commentatori olandesi a intendere, con Leumann-Hofmann-Szantyr, primus come prior. Il testo di V 28 è così ordinato dai commentatori: puto puellam – si probe memini Psyches nomine dicitur – efflicte cupere, altri: puto puellam, si probe memini Psyches nomine: dicitur efflicte cupere. Le due soluzioni mi sembrano troppo pesante e inadatte al contesto colloquiale; io avevo letto, seguendo in parte Grimal, nel modo seguente: puto, puellam – si probe memini, Psyches nomine – dicitur efflicte cupere; Nicolini scrive una lunga nota per proporre questo stesso testo con la sola differenza che elimina la virgola, per dare a cupere un uso assoluto: puto puellam etc. (la mia traduzione: “credo che sia una ragazza – se ricordo bene, si chiama Psiche; è di lei che è innamorato perdutamente, stando a quanto si dice”; Nicolini: “ma credo si tratti di una ragazza – se non ricordo male si chiama Psiche – pare che sia perdutamente innamorato”): much ado about nothing. I commentatori difendono F anche in VI 13, conservando (a mio parere con una spiegazione non persuasiva) nec auscultatu paenitendo, diligenter instructa, illa cessavit, che altri correggono in: nec auscultatu <im>paenitendo diligenter instructa (così anche Moreschini e Nicolini).
Le interpretazioni del testo sono quasi tutte condivisibili, basate su una conoscenza approfondita del sermo apuleiano e della evoluzione della lingua latina; concorrono alle interpretazioni testimonianze archeologiche, Realien e manuali del secolo XIX, ancor oggi indispensabili. All’occorrenza sono ben colte (es., p. 440) le implicazioni giuridiche di certe espressioni. La chiara e sintetica interpretazione di IV 32 propter Milesiae conditorem mette fine, nella maniera che anche io avevo pensato, a vecchie discussioni. Il balzo di Psiche trasportata da Zefiro in IV 35, è esaminato nella ricercatezza del suo lessico, così come un’altra fine analisi è quella della scena di Psiche ed Eros in V 6 (pp. 151-152). Bene si osserva (V 6, p. 148), seguendo Hijmans, che la curiositas di Psiche è, inizialmente, la curiositas delle malvagie sorelle, non di Psiche stessa: questo conferma e contrario il fatto che, come io ritengo, la curiositas non è sempre e necessariamente sacrilega. In generale i commentatori sono inclini a mantenere il significato ‘pieno’ di ille, illae (ad esempio, le sorelle), che io invece consideravo indebolito, tanto da tradurre spesso certi sintagmi come illae sorores come “le sorelle”.
Di notevole interesse, e sempre calzanti sono i riferimenti a testimonianze di arte pittorica e di scultura (ad esempio nelle descrizioni del palazzo di Eros in V 1), a imitazioni della novella in pitture del Rinascimento italiano (V 22, p. 272) e nella pittura europea (p. 160): altrettanto avevo cercato di fare, ricostruendo brevemente la presenza della novella apuleiana nella letteratura italiana: una semplice ‘compilazione’ per Nicolini (p. 35, n. 61), ma lodata dalla medesima nella sua già menzionata recensione, p. 990 (e comunque arricchita di alcuni particolari ancora nell’articolo da me pubblicato su “Fontes” 2000, pp. 21-44).
La novella è interpretata secondo i parametri della filosofia platonica (l’accetta, ma con scarsa informazione, anche Nicolini, p, 34 n. 59); tale interpretazione, come ho ripetuto più volte altrove, non mi convince (ma mi accorgo che, col passar degli anni, sono diventato sempre più vox clamantis in deserto). Di carattere platonico è, in primo grado, secondo i commentatori, il nome di Psiche (IV 30); IV 31 si pensa che si trovi, per il lector doctus (o per gli editori moderni?), un riferimento al mito di Poros e Penia del Simposio platonico, là dove Venere vuole che Psiche sia presa dall’amore per un homo extremus. In IV 34 non c’è (a mio parere) nessun “Platonic background” nell’affermazione di Psiche, di volersi affrettare a vedere il suo marito ignoto. Che il mondo sovrannaturale in cui Psiche si trova a partire da V 2 (p. 124) giustifichi una interpretazione simbolica, non è affatto necessario: può giustificare anche, e meglio, una narrazione di pura invenzione. Del resto, talvolta gli stessi commentatori sono costretti ad ammettere (p. 294) che l‘interpretazione platonica solo difficilmente si adatta alla narrazione: perché, allora, inserirla ad ogni costo? La ‘visione’ di Eros, a cui Psiche perviene (V 22), è interpretata come una imitazione della ‘visione’ della verità a cui tendono le anime secondo il Fedro e il Simposio di Platone (assurda la affermazione del Burkert, che il Fedro sarebbe il “Grundtext der Mystik überhaupt”, p. 276); “la descrizione di Psiche, incapace di seguire Cupido che fugge sulle sue ali, e cade a terra, senza dubbio (corsivo mio) si riferisce a Platone, Fedro 248c” (V 24, p. 294) – comunque, i commentatori ritengono che il passo di Apuleio sia “una gradevole lettura del famoso passo del Fedro, con una descrizione, eccessivamente comica, della fallita ascesa dell’Anima” (sic il maiuscolo). Persino la stanchezza di Psiche in questo suo tentativo di seguire Eros può essere riferita al tentativo dell’anima di vedere la verità, di cui si parla in quel passo platonico (p. 295). E analoghi dubbi io ho, a proposito dell’ipotesi che la descrizione dei sentimenti di Psiche che vede per la prima volta Cupido in tutta la sua bellezza (p. 277) implichi una rivelazione misterica di Eros. Merita, comunque, di essere ricordata anche l’interpretazione dell’Edwards (cf. M. Edwards: The tale of Cupid and Psyche, ZPE 94, 1992, pp. 77-94), il quale pone in relazione la novella apuleiana con alcuni motivi presenti nella letteratura gnostica o anche in miti precedenti, di origine babilonese, e giunge ad affermare: “But if any myth of this kind is to be aligned with the Apuleian fable, is that of Valentinus”.
Talora si trovano, a mio parere, delle sovrinterpretazioni. In IV 30 la descrizione di Venere come rerum naturae prisca parens è influenzata da Lucrezio, invece di “appartenere al vocabolario standard di Apuleio per designare il Dio Supremo, whoever he or she may be”: il dio supremo di Apuleio è quello del medioplatonismo, e quindi non personale, non può essere né he né she. In IV 34 non avrei seguito Schiesaro per vedere un riferimento a Lucrezio I 89 (ove si descrive Agamennone affranto durante il sacrificio di Ifigenia) nei maesti parentes che esitano ad obbedire all’oracolo di Apollo, che vuole il sacrificio di Psiche. Che in V 1 herbosis locis sia un sintagma che risale a Catone mi sembra poco credibile. L’ipotesi che il chorus di V 3 (… ut, quamvis hominum nemo pareret, chorus tamen esse pateret) debba essere collegato, come pensano alcuni (i commentatori, però, non hanno detto se concordano con quegli studiosi), con le idee platonico-pitagoriche riguardanti la musica è assolutamente fantastico. Né mi sembra dimostrato che l’impiego del termine savium in V 7 “sottolinei il carattere sensuale delle tre sorelle” (p. 158) o che la caccia a cui si dedica il marito di Psiche, stando a quanto ella stessa inventa durante il colloquio con le sorelle (V 8), corrisponda a verità, in quanto Cupido si dedica a un “erotic hunting”.
In conclusione, si tratta di un commento che è stato concepito
secondo i criteri che sempre più si stanno diffondendo ai
nostri tempi per questo tipo di lavori, cioè come uno
strumento totalizzante, che contiene la globalità delle
conoscenze relative ad un testo, più che come il suggerimento
di un esperto, che accompagna il lettore. Il volume risponde
pienamente ai criteri che si è proposto, attuandolo con una
mirabile erudizione, la quale non esclude, comunque, interpretazioni
fini e persuasive, e rimarrà insostituibile per molti decenni.
Claudio Moreschini, Pisa
moreschini@flcl.unipi.it