Paola Volpe Cacciatore: L’eredità di Plutarco. Ricerche e proposte. Napoli: M. D’Auria Editore 2004 (Strumenti per la ricerca plutarchea V). 123 p. Euro 20.00. ISBN 88-7092-237-5.


Il volume, che raccoglie 8 brevi saggi, di cui 4 apparsi a cavallo tra il 1999 ed il 2001, i restanti in corso di stampa in Atti di Convegni e Miscellanee, dovrebbe nelle intenzioni dell’autrice (d’ora in poi V.C.) rappresentare ,,un primo parziale approccio ad un più esauriente lavoro di ricostruzione della storia del plutarchismo‘‘ (9); tema questo quanto mai interessante e ricco di sviluppi interpretativi ed indagini storico-letterarie, cui non a caso di recente è stato consacrato un intero convegno della sezione italiana dell’International Plutarch Society.1 Tuttavia, il libro di V.C., che non va al di là di generiche affermazioni, oltre che da un apparato bibliografico eccessivamente ridotto, tradisce di molto le attese del lettore. Ma, veniamo al contenuto dei singoli capitoli.

Nel primo, intitolato ,,L’etica di Plutarco in un autore del IV secolo: Temistio‘‘ (11-19), V.C. propone un accostamento tra le orazioni 24 e 33 di Temistio e i trattati etici di Plutarco (su tutti il De virtute morali ed il De profectibus in virtute) per mostrare come nell’opera del retore tardo-antico vi sia una chiara rielaborazione dell’etica plutarchea, in particolare per ciò che riguarda il problema della paideia.

Il secondo, ,,Una lettura di Temistio attraverso alcune citazioni di Plutarco‘‘ (21-29), è consacrato nuovamente alla fortuna di Plutarco in Temistio. Ancora una volta la studiosa rivolge la sua attenzione ai Moralia, ,,perché – si legge apoditticamente a p. 21 – è soprattutto da essi che si può dedurre il grado di conoscenza delle opere plutarchee ed il loro «uso strumentale»‘‘.

Nel terzo capitolo, ,,Sinesio e il Plutarco dei Moralia‘‘ (31-41), l’autrice si sofferma, ora, sugli influssi dell’opera di Plutarco (in particolare il De Iside ed i cosiddetti dialoghi delfici) su Sinesio. Del metropolita di Cirene viene preso in considerazione soprattutto l’op. 2 (Racconti egiziani o La Provvidenza), che mostrerebbe le tracce di una profonda consonanza tra il neoplatonismo cristianizzato del suo autore e la concezione della pronoia delineata da Plutarco. Il che, conclude V.C., giustificherebbe ,,il medesimo amore per il sapere e la filosofia che sovrasta tutte le Muse presenti pure nel Cheronese‘‘ (41).

Arriviamo, così, al centro del libro, dedicato a ,,Plutarco e Toma Magistro: l’educazione dei figli‘‘ (43-52) (apparso in: Vichiana s. quarta 1, 1999). In esso, vengono chiarite, alla luce del modello platonico della Repubblica e del De liberis educandis di Plutarco, le linee strutturali della pedagogia di Toma Magistro, quali emergono dalla lettura del suo De subiectorum officiis.

Il capitolo successivo è dedicato ad indagare genericamente le fonti greche e latine del De verecundia dell’umanista italiano Coluccio Salutati (53-66) (apparso in: Vichiana s. quarta 2, 2000), in cui un posto particolare spetterebbe a Plutarco con il suo De vitioso pudore, dedicato interamente al problema dell’eccessiva arrendevolezza e dei rimedi per evitarla.

Nel sesto capitolo, intitolato ,,Echi plutarchei nelle Disputationes contra astrologiam di Pico della Mirandola‘‘ (67-78), V.C., atteso che Plutarco ignorerebbe del tutto il confronto tra astronomia-scienza esatta e astrologia-fede cieca nelle divinità degli astri e nel loro influsso sul fato degli uomini (67), si sforza di rinvenire consonanze di motivi tra il Cheronese e l’umanista italiano Pico della Mirandola, per concludere, in ultima analisi, che costui si sia servito anche degli argomenti plutarchei – in particolare quelli del De defectu oraculorum, ma anche del De facie e del De E apud Delphos – per combattere la pseudo-scienza degli astrologi.

Gli ultimi due capitoli, apparsi rispettivamente in: Rinascimento 41, 2001 ed in Filologia antica e moderna 20, 2001, indagano entrambi l’eredità del concetto plutarcheo di Fortuna nell’età moderna: nell’opera, rispettivamente, del poeta e letterato rinascimentale italiano Torquato Tasso (,,Fortuna e Virtù in Plutarco e Tasso‘‘, 79-98) ed in quella del filosofo napoletano Gian Battista Vico (,,Plutarco, Vico e la Fortuna dei Romani‘‘, 99-111). Del Tasso viene studiata ,,una delle sue orazioni‘‘ (79), scritta dichiaratamente per contestare la visione filogreca che emerge dagli scritti di Plutarco, del Vico il De constantia philologiae, indirizzato Adversus Plutarchi librum de Fortuna Romanorum.

Devo dire che questi due ultimi contributi (in particolare quello su Plutarco e Tasso, i cui rapporti erano già stati indagati da L. Torraca in un contributo apparso nei sopra menzionati Atti del VII Congresso della sez. italiana dell’I.P.S., ma neppure menzionato2) sono forse quelli che più avrebbero potuto interessare. Si notano, tuttavia, una serie di carenze che rendono il lavoro quanto mai precario. In particolare, si nota lo squilibrio nel saggio relativo a Plutarco e Vico dello spazio dedicato a quest’ultimo rispetto al primo (appena 4 pagine su 13). In effetti, il nome del filosofo napoletano compare ex abrupto a p. 108, occupando un posto del tutto marginale nell’economia dell’insieme.

Quanto, invece, al capitolo su Tasso, il lettore, come ho già rilevato sopra, desidererebbe sapere a quale delle sue orazioni l’autrice si riferisce, visto che non fornisce alcuna indicazione in merito, limitandosi solo a riportare in nota le pagine di un’edizione napoletana del 1840, senza per altro indicarne il curatore.3

Il cp. VI, tra imprecisioni e manchevolezze di vario genere,4 parte da un errore di fondo: che, cioè, Plutarco non si sia mai interessato alla polemica astronomia vs. astrologia. Tale affermazione mostra una grave ignoranza del problema, laddove solo si riflettesse sul dato, ampiamente riconosciuto, che non tutto di Plutarco ci è pervenuto e soprattutto si considerasse la testimonianza del cosiddetto Catalogo di Lampria, in cui vi è la chiara menzione di ben due perdute opere del Cheronese – il Peri\ mantikh=j o(/ti sw/zetai kata\ tou\j  )Akadhmaikou/j (nr. 71) ed il Peri\ tou= mh\ ma/xesqai tv= mantikv= to\n  )Akadhmaiko\n lo/gon (nr. 131) -, in cui pure doveva esservi spazio per tale polemica.5

D’altra parte, pur ammettendo con V.C. che ,,in Plutarco astronomia e astrologia di fatto coincidono‘‘ (68) e che egli non abbia mai affrontato un discorso contra astrologiam, com’è poi possibile sostenere nelle conclusioni (78) che, proprio grazie alle osservazioni del Cheronese, Pico della Mirandola può ben definire l’astrologia scienza fallace?

Ancora: nel corso del suo trattato, Pico segnala il nome di Plutarco, assieme a quello di Diogene Laerzio e Teodoreto, per la solidale testimonianza riguardante l’ostilità di Pitagora nei confronti della mantica (69). Come può, dunque, Plutarco essere la sola fonte dossografica per Teodoreto, Diogene Laerzio, Favorino, Panezio, Seneca e in ultimo Cicerone, stando a quanto scrive V.C.: ,,Plutarco, dunque, riferisce il pensiero di costoro senza peraltro esprimere alcun giudizio e non poteva essere altrimenti, dal momento che per il filosofo di Cheronea il problema rivestiva soltanto carattere scientifico‘‘ (69-70)? Oltre l’assurdità dell’assunto (la maggior parte degli autori menzionati sono successivi a Plutarco!), che immagine sarebbe quella di un filosofo che rinuncia alla discussione critica circa le posizioni dei suoi predecessori sull’astrologia, limitandosi solo a riportarne i giudizi?

Mi permetto, a questo punto, di sollevare un serio dubbio sulla necessità di inserire nella presente raccolta di saggi anche quello relativo a Plutarco e Coluccio Salutati. Come per stessa ammissione dell’autrice (58, n. 16), ,,Coluccio conosceva bene le Vitae, ma non i Moralia che si diffusero solo più tardi a Firenze‘‘. Com’è possibile, allora, anche soltanto evocare il fantasma plutarcheo del De vitioso pudore tra le fonti classiche del De verecundia del Salutati?

L’unico caso, al contrario, in cui l’umanista italiano potrebbe aver tenuto realmente presente Plutarco (autore delle Vitae) non è affatto riconosciuto da V.C. Mi riferisco, cioè, al passo in cui Coluccio loda la verecondia nei giovani, per la quale la studiosa richiama giustamente l’esempio di Plu., vit. pud. 528F, a proposito dell’aneddoto di Catone il Censore. Ciò, tuttavia, per concludere semplicisticamente che ,,Coluccio non cita Plutarco, ma ricorre alla medesima immagine‘‘ (59). V.C. dimentica, infatti, che l’aneddoto relativo a Catone si legge anche in Cat. Mai. 9, 5, cui Coluccio avrebbe potuto proprio alludere.

Come che sia, nell’intero contributo Plutarco gioca un ruolo assolutamente marginale, se non proprio nullo, tale da non giustificare la presenza del saggio nell’intera raccolta. Al contrario, sui rapporti tra Plutarco e Salutati, valeva certamente la pena di rimandare alle pagine di R. Weiss (,,Lo studio di Plutarco nel Trecento‘‘, PP 32, 1953), qui neppure menzionato.6

Un grave errore metodologico è, poi, quello di proporre nel cp. IV un accostamento tra il Plutarco del De liberis educandis ed il Toma Magistro del De subiectorum officiis, senza affatto porsi il problema della paternità dell’opuscolo plutarcheo. Che senso ha inserire un saggio sulla fortuna di un trattato non plutarcheo in un volume dedicato alla fortuna di Plutarco? In tal senso, sarebbe stato, forse, più giusto intitolare il libro all’eredità del corpus di Plutarco.

Sta di fatto che V.C., oltre ad attribuire tout court l’opera a Plutarco (46), propone accostamenti tra la pedagogia del De liberis educandis e quella del De subiectorum officiis del tutto banali e privi di reali incidenze sul piano della dipendenza di questo da quello. Si rimane, pertanto, interdetti, laddove l’autrice crede di rinvenire comuni presupposti pedagogici a Plutarco e Toma che sono, invero, presupposti comuni al mondo classico. Non è un caso che i paralleli più numerosi, riportati dalla stessa V.C., vengano da Platone (in particolare la Repubblica) e non già da Plutarco.

Prima di concludere, segnalo due ultime caratteristiche dello stile del libro, che colpiscono in negativo il lettore. Anzitutto, andrà rilevato che non si contano le citazioni e le riprese testuali, talora di interi brani, di studiosi del mondo classico (all’occasione si tratta anche di auto-citazioni: vd. 63) che affastellano le pagine del volume. Basti indicare la p. 107, dove le parole di V.C. fanno da semplice connettivo per una citazione di L. Torraca, un’altra di A. Momigliano ed infine una dal De fortuna Romanorum di Plutarco nella traduzione italiana di G. Forni.

E vengo così alla seconda: V.C. introduce molto volentieri passi di autori antichi in traduzione italiana, senza però indicarne la fonte, così da dare l’impressione fallace che si tratti di una versione personale.7

Insomma, da questa breve presentazione, è chiaro il valore mediocre del libro, non scevro, tra l’altro, da sviste di vario genere.8 Il che, assieme agli evidenti limiti del contenuto, porta davvero a faticare molto il lettore che voglia individuare la ,,non comune maestria‘‘ e la ,,singolare acribia‘‘ di cui l’autrice avrebbe fatto prova nell’esplorare il Nachleben plutarcheo, stando alle benevole parole di ,,Presentazione‘‘ (7) di Luigi Torraca.

Antimo Verde, Roma

atmvd@libero.it


1 Cf. I. Gallo (ed.): L’eredità culturale di Plutarco dall’Antichità al Rinascimento. Atti del VII Convegno plutarcheo. Milano-Gargnano, 28-30 maggio 1997. Napoli 1998.

2 Né sarebbe stata inutile la lettura di L. Chines: Tasso postillatore di Plutarco, in: Tasso e l’Università. Atti del Convegno (Ferrara , 14-16 dicembre 1995). Firenze 1997.

3 Ricordo per il lettore che si tratta della cosiddetta ,,concione sulla virtù dei Romani‘‘, composta dal Tasso nell’estate del 1590 su istanza di Fabio Orsini e concepita come una sorta di prosopopea di Roma in risposta a due operette plutarchee. Anche altrove V.C. non indica con precisione le fonti d’autore: vedi, ad es., p. 55-56, dove vengono evocati Gregorio di Nissa e Alcido, senza possibilità alcuna di individuare il locus esatto di appartenenza.

4 Per Diogene Laerzio viene usata, senza alcun chiarimento preventivo, l’edizione ottocentesca di H. G. Huebner (Lipsiae 1828-1831) in barba sia all’edizione finora di riferimento del Long (Oxford 1964), che a quella più recente per la Bibliotheca Teubneriana di M. Marcovich (Leipzig 1999). Analogamente dicasi per i frammenti di Aristotele (92, n. 46), citati secondo l’edizione del Rose (Lipsiae 18863) piuttosto che del Gigon (Berlin-New York 1987). La nota 11 di p. 69, infine, mostra una profonda lacuna di conoscenze, dato che la condanna dell’astrologia nel mondo antico, su cui molto si è scritto, è testimoniata in numerosissime fonti ed il solo rimando ad AP 9, 80 non è affatto sufficiente: si veda, per una panoramica, il recente volume di E. Spinelli: Sesto Empirico. Contro gli astrologi- Napoli 2000.

5 In tal senso vanno anche i frammenti superstiti dell’ Ei) h( tw=n mello/ntwn pro/gnwsij w)fe/limoj (VII, 111 Bernardakis) e del Peri\ mantei/aj (VII, 113 Bernardakis), chiaramente sconosciuti a V.C.

6 Di Weiss si veda anche: Per gli studi greci di Coluccio Salutati, in: Aa. Vv., Il mondo antico nel Rinascimento. Atti del V Convegno internazionale di studi sul Rinascimento. Firenze 1958 e Gli studi greci di Coluccio Salutati, in: Aa. Vv., Miscellanea in onore di Roberto Cessi, I. Roma 1958.

7 Cito, a titolo d’esempio, il caso della versione del De profectibus in virtute (13-14 e n. 9), che spetta ad E. Valgiglio (Plutarco. Il progresso della virtù. Napoli 1989, 103), e quella dell’Anthologia Palatina (70, n. 11), che risale a F. M. Pontani (Antologia Palatina. 3. Torino 1980, 43).

8 Raccolgo un campione necessariamente limitato: p. 11, 4: il volume temistiano di R. Maisano (Torino 1995) non è affatto un’edizione critica, bensì una traduzione italiana condotta sull’edizione riveduta di Schenkl-Downey-Norman; p. 11, l. 8: protre/ptikon in luogo di protreptiko/j e Nikomh/desin in luogo di Nikomhdeu/sin; p. 12, l. 4: ,,sè‘‘ in luogo di ,,sé‘‘; p. 23, n. 10: la trad. it. degli Stoici antichi (Milano, 1998) è di R. Radice e non di G. Reale; p. 32, l. 20: leggere paradioikei=n a)cioi=j e non paradioikei= a)cioi/j (per inciso è hapax plutarcheo solo il vocabolo paradioikei=n e non l’intera espressione paradioikei=n a)cioi=j); p. 33, n. 5: leggere ,,V.‘‘ e non ,,V‘‘; ,,Syn.‘‘ e non ,,Sin.‘‘; p. 39, n. 16: leggere ,,Tübingen‘‘ al posto di ,,Tubingen‘‘; p. 67, n. 2: leggere ,,Astronomía‘‘, ,,Astrología‘‘ e ,,orígines‘‘; p. 69, n. 8: leggere ,,Atticae‘‘ e non ,,Acticae‘‘ ; p. 69, n. 11: leggere ,,Anthologia‘‘ e non ,,Antologia‘‘ ; p. 79, n. *: si legga ,,seguito‘‘ in luogo di ,,seguita‘‘; p. 95, nn. 54-55: l'autrice cita senza alcun avvertimento l',,Encomio per Roma'' di Elio Aristide secondo l'edizione del Klein (Darmstadt 1983) in luogo di quella attualmente di riferimento a cura di B. Keil; p. 98: la citazione ciceroniana dalle ,,Epist. ad Quintum fratrem‘‘ corrisponde in realtà a 1, 1, 28 e non 1, 12, 28; p. 118, l. 11: leggere ,,Bowersock‘‘ invece di ,,Bowresock‘‘.


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