E. Rebuffat:POIHTHS EPEWN. Tecniche di composizione poetica negli Halieutica di Oppiano, Firenze: Leo S. Olschki Editore 2001 (Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria». Studi: CXCVII), 280 p. Euro  28,00. ISBN 88-222-5032-X (ISSN 0065-0781).

 

La cultura moderna ha tradizionalmente interpretato la retorica e la poesia come due sistemi comunicazionali alquanto distanti e differenti tra loro: la retorica rappresenta esclusivamente una pratica prosastica utilizzata per persuadere l’uditorio del punto di visto dell’oratore, la poesia è un’espressione estetica[1]. Ed invece, come sempre più le attuali ricerche tendono a dimostrare, nel mondo antico i due sistemi non erano praticati o considerati separatamente, bensì „both stemmed from an archaic art of eloquence; both advanced argument; both were intended to move an audience to a particolar act of judgment“[2]. In particolare, si è visto che l’oratoria epidittica mutua dalla poesia encomiastica gli strumenti formali e contenutistici fondamentali della retorica classica, tanto da fare, secondo talune tradizioni testimoniate da Plutarco (quaest. conv. 9,744d-e) e da Tacito (dial. 12,3), della prima il più antico fra i tre generi dell’oratoria, della seconda il più antico della poesia[3].

 

Se tale incontro perdura per tutta l’epoca classica[4], è, tuttavia, in età imperiale che esso trova nuova linfa e piena realizzazione, dal momento che, com’è noto, il genere epidittico o laudativo prende il netto sopravvento sugli altri due generi oratori finendo con l’informare di sé l’intero sistema letterario[5]. Assistiamo, cioè, ad un’inversione di marcia, nel senso che la poesia ora più che mai risente delle norme definite dall’eloquenza encomiastica nella topica del discorso. E tra i vari generi della poesia, praticati nell’era comune, è, forse, soprattutto in quello dell’epica didascalica, coltivato in età imperiale con lo stesso se non proprio con maggiore impegno dell’ellenismo, che i poeti, oltre a mettersi in concorrenza col glorioso passato greco - rappresentato da Omero ed Esiodo, ma anche da Arato e Nicandro -, si trovano a gareggiare con i sofisti contemporanei nell’arte di riuscire a plasmare in una piacevole ed originale veste ,eroica‘ soggetti scientifici, tale non solo da permettere la maggiore e più facile divulgazione del sapere stesso, ma anche di elogiare la disciplina messa in versi[6]. Che, infatti, poemi didascalici, quali la Descripio orbis di Dionisio d’Alessandria, così come gli Halieutica di Oppiano di Anazarbo ed i Cynegetica del suo omonimo di Apamea, ma pure gli Iatrika di Marcello di Side, rappresentassero in buona sostanza un elogio della materia cantata è un dato incontestabile, riconosciuto finanche da Ovidio nei suoi Halieutica[7]. Né mancano, per converso, nella retorica eulogistica esempi di composizioni in prosa inneggianti ad attività umane, come l’agricoltura ecc., ovvero elogi paradossali di insetti, animali terrestri ed uccelli[8].

 

Si tratta, io credo, di un tema dalle notevoli ed interessanti implicazioni sociali e culturali, finora non ben indagato[9], nonostante il  rinverdire di studi e ricerche sulla Seconda Sofistica, ma sui cui verrebbe forse la pena di soffermarsi con maggiore attenzione e sistematicità, visto anche il ruolo assunto in età imperiale dalla retorica dell’elogio nei curricula scolastici[10] e la possibilità, invero non rara, di imbattersi in esercizi preparatori (progymnasmata), soprattutto prosopopee, in versi[11]. Del resto, come lo dimostra già per l’epoca augustea il caso di Ovidio, gli stessi produttori di testi poetici erano in qualche caso essi stessi oratori o, comunque, avevano inizialmente intrapreso la carriera forense[12].

 

Ecco, dunque, che il merito maggiore di uno studio sulle tecniche di composizione poetica degli Halieutica di Oppiano, quale si presenta il libro di Enrico Rebuffat, risiede, a mio avviso, proprio nello sforzo di  fornire per la prima volta ai lettori ed in maniera sistematica e mirata un esame degli strumenti formali, al di là del metro e della lingua epici[13], provenienti dalla trattatistica retorica antica, che caratterizzano il poema oppianeo in particolare, ma la produzione didascalica di età imperiale in gene. In pratica, un utile strumento di indagine, attento ad individuare, nell’era ,pansofistica‘ degli imperatori romani, i ,moduli compositivi‘, così come li battezza lo studioso (12), degli Halieutica, a sua volta modello sicuro per le future ed eventuali simili ricerche.

 

A tale merito, si aggiunge, però, anche quello intrinseco di portar luce su alcuni aspetti della tecnica poetica di un autore poco letto; di qui il generale disinteresse e la pregiudiziale mediocrità del poema, che di recente ha trovato una nuova veste nell’edizione critica con traduzione tedesca di F. Fajen (Stuttgart/Leipzig 1999). Se, infatti, non mancavano contributi particolari su singoli aspetti della lingua e dello stile degli Halieutica[14], il lavoro del Rebuffat si pone in assoluto come la prima monografia letteraria fondata su basi filologiche che delinei in certo qual modo le qualità artistiche ed estetiche del poema[15]. Certo, trattandosi del primo tentativo del genere, bisogna guardare ad esso come ad un punto di partenza e non come al punto d’arrivo. Varie, infatti, come vedremo, sono le questioni affrontate nel libro per le quali le conclusioni dello studioso non sembrano essere destinate a godere di un gran consenso. Ma, altrettanto ricche ed interessanti per la futura ricerca sono le acquisizioni raggiunte, quasi sempre supportate da un ragionamento personale e moderato, talora, però, eccessivamente didascalico[16].

 

Dopo una ,Premessa‘ (7-9), in cui l’autore motiva le necessità che hanno spinto a proporre uno studio letterario degli Halieutica, ed una rapida ,Introduzione‘ (11-15), ove vengono illuminate le modalità di indagine ed il piano di ricerca seguito, il libro risulta svilupparsi in tre sezioni.

La prima, ,Argomento e struttura degli Halieutica‘ (19-63), serve da propedeutica all’impianto dell’intero volume. In essa, l’autore indaga la scelta (inventio) e la struttura (dispositio) della materia. Quanto al primo elemento, che coinvolge l’argomento stesso del poema, per il quale Oppiano ,inventa‘, cioè reperisce il materiale fornitogli dalla tradizione sull’argomento prescelto al fine di plasmarlo secondo una nuova e più piacevole forma, il Rebuffat traccia rapidamente i precedenti ittiologici ed alieutici, non tanto per rinvenire la fonte ovvero le fonti scritte di Oppiano[17], quanto piuttosto per sottolineare come nel caso della produzione didascalica in versi non bisogna assolutamente chiedere al poeta di turno originalità nei contenuti o avanzamento nella ricerca scientifica, bensì solo originalità di trattamento del soggetto scelto. Per lo studioso, infatti, la selezione e la rappresentazione degli argomenti negli Halieutica di Oppiano è fatta in vista del godimento  del lettore, la terpwlhv, categoria estetica cui il poeta stesso accenna in diversi punti della sua opera in concomitanza con le apostrofi ai dedicatari (1, 56-57, 71, 79; 4, 6-10); selezione, invero, che colpisce non solo l’inventio degli argomenti trattati, ma anche il modo in cui questi sono rappresentati. „La vitalità del mondo marino infatti, che è di per sé la protagonista del poema, viene esaltata con un procedimento che, per il numero delle sue occorrenze e per la coerenza on la quale viene utilizzato, si può considerare un vero e proprio Leitmotiv: l’umanizzazione“ (38). Passando alla struttura ed alla disposizione della materia, fase con la quale si entra nel vivo della poetica e dell’arte compositiva del poema, visto che da esse deriva la chiarezza o la confusione di qualsivoglia testo poetico, la sua varietà o la sua monotonia, lo studioso, avallando una nutrita serie di giudizi già espressi in precedenza dalla critica, si esprime a favore della grande sistematicità dell’opera, pur riconoscendo, talora, sporadici casi di incoerenze (53, n. 30). In particolare, seguendo il Richmond[18], si dichiara a favore dell’originalità artistica di Oppiano nella strutturazione e nel trattamento della materia, che difficilmente poteva rispecchiare l’originale in prosa del modello seguito (a messo che esso fosse unico). Tale conclusione è in aperta contraddizione con quanto sostenuto a suo tempo da B. Effe secondo il quale, invece, Oppiano avrebbe dato scarsa importanza alla disposizione del contenuto[19]. A tale giudizio, in particolare, il Rebuffat oppone una serie di sagaci osservazioni, proponendo uno schema analitico del poema (57-63), da cui emerge con chiarezza la precisa ed accurata struttura che sorregge l’impalcatura dell’intero poema.

 

Nella seconda, ,Moduli formali‘ (67-144), lo studioso esamina con attenzione gli strumenti utilizzati da Oppiano per esprimere la sostanza scientifica dei suoi dati ovvero i ,modi poetici di dire‘, quali l’amplificazione, la sinonimia, la prosopopea, l’apostrofe, ecc., che non apportano contenuti ulteriori rispetto a quelli preesistenti all’applicazione del modulo stesso. In particolare, il procedimento amplificatorio, per il quale il Rebuffat (69-70) condivide l’interpretazione di chi vi vede un ampliamento del discorso in senso orizzontale e non verticale[20], appare una delle caratteristiche salienti dell’arte oppianea. La nutrita lista di amplificazioni per similia (71-77) e per contraria (78-81), nonché gli esempi di scomposizione accuratamente raccolti ed elencati dall’autore (81-82) danno bene il senso di tale perizia artistica; perizia che si riscontra anche nell’utilizzo della sinonimia, intesa come ricerca di variatio lessicale, che contrappone giustamente Oppiano ad Omero ed ai suoi epigoni, i quali preferiscono ,giocare‘ stilisticamente sulle ripetizioni di medesimi vocaboli, indugiando volentieri sull’epanalessi. In ciò, il Rebuffat si pone in aperta contrapposizione col giudizio espresso da H. White, la quale, al contrario, ritiene le ripetizioni lessicali in Oppiano altrettanto frequenti che nell’epica tradizionale[21].

 

Infine, la terza, ,Moduli contenutistici‘ (147-246), indaga la sostanza e la finalità di quegli strumenti retorici e stilistici (la su/gkrisij,  gli excursus mitici, la gnome, la similitudine), che, diversamente dai moduli precedentemente discussi, apportano un contenuto ulteriore e significativo rispetto a quello preesistente - in pratica, le ,cose poetiche da dire‘, „ovvero affermazioni, discorsi, storie, sentiti come tipicamente epici, o almeno genericamente epici, originariamente non compresi nelle notizie scientifiche che il poeta vuole riferire“ (14) -, rendendo palpabili ed evidenti gli influssi della contemporanea teoria della retorica epidittica.

 

Il paragone o su/gkrisij, ad esempio, che trovava la sua collocazione naturale fra i topoi dell’encomio già a partire dall’epoca arcaica, dove serviva a dimostrare l’eccellenza del laudando (paragone di superiorità), in età imperiale, grazie alla sistematicità dei tecnigrafi, non solo viene rivalutato ed ampiamente ridiscusso, ma è addirittura arricchito con l’introduzione del paragone di uguaglianza, un particolare tipo di su/gkrisij che richiedeva l’utilizzo di un secondo termine di raffronto congenere al primo o quantomeno non troppo eterogeneo (147). Tale topos, che rappresentava di per sé un esercizio tipico dei progymnasmata, come dimostrano gli esempi presenti nel corpus di Libanio, assume nell’epica didascalica una funzione particolare: quella, cioè, di paragonare a materie ad essa affini la materia oggetto del proprio canto, per dimostrare, indirettamente, la superiorità del proprio poema su altri poemi didascalici. Ebbene, se Arato, Nicandro, Dionisio il Periegeta ed altri autori preoppianei non sembrano interessati all’inserimento di paragoni del genere, forse anche a causa degli argomenti prescelti, Oppiano appare come il primo poeta greco ad introdurla, spinto sia da ragioni personali che dall’influenza esercitata dalla retorica.

 

Contrariamente alla su/gkrisij, il mito non sembra avere, invece, negli Halieutica granché importanza, non presentandosi come uno strumento adeguato alle caratteristiche ed alla materia del poema né congeniale all’ispirazione dell’autore. L’esame degli excursus mitici mostra con evidenza che Oppiano ricorre ad essi raramente, distaccandosi in questo sia dal precedente ellenistico di Nicandro, ma anche da Dionisio il Periegeta, dall’autore del De viribus herbarum e da quello dei Lithica – dove, invero, il mito svolge una funzione strumentale -, avvicinandosi, invece, ad Arato, ai Cynegetica, a Numenio, a Marcello di Side ed ai Theriaca di Andromaco (almeno per quello che ci è dato inferire in base ai frammenti superstiti).

 

Ma, dove Oppiano mostra ancora una volta di risentire delle tendenze dominanti nella retorica del suo tempo è nell’utilizzo delle gnw=mai, ampiamente disseminate nel poema non solo per assolvere ad evidenti finalità strutturali e funzionali interne al testo stesso, ma anche parenetiche e moraleggianti. Sotto questo aspetto, anzi, Oppiano risulta essere l’unico autore didascalico postesiodeo ad aver restituito tono autenticamente didascalico al poema: „Sul piano della didaxh etica, gli Halieutica sono assai più impegnati degli altri poemi didascalici, e soprattutto di quelli di età ellenistica. Questi, per quanto ci è dato sapere, contenevano una didaxh/ esclusivamente disciplinare, non etica. Non a caso sul piano della didaxh/ tecnica gli Halieutica sono, al contrario, meno normativi di poemi come quelli di Arato, Nicandro o Dionisio, dal momento che il concreto ammaestramento tecnico in seconda persona vi è quasi completamente assente, e la materia quasi mai viene esposta sub specie docendi“ (182).  A comprova, poi, del fatto che in età imperiale alla gnome fosse dedicata sempre una sezione dei progymnasmata e ad essa ricorrevano continuamente i sofisti ed i romanzieri, il Rebuffat (185-186) richiama opportunamente i passi dell’epistolario di Frontone (p. 44-45; 85 van den Hout2), ove risulta che il maestro di Cirta assegnava all’imperatore Marco Aurelio, cui non a caso gli Halieutica sono dedicati, l’esercizio di tradurre gnw=mai, esigendo sollertia, brevitas e diluciditas.

 

Un altro esercizio che Frontone volentieri assegnava a Marco Aurelio consisteva, tuttavia, anche nel formare similitudini: dato, cioè, un comparante, l’allievo doveva trovare per esso il comparato adeguato (p. 21-24; 40-42 van den Hout2). Il suggestivo parallelo aiuta nuovamente ad inquadrare gli Halieutica all’interno del contesto culturale della Seconda Sofistica, e non solo: lascia comprendere per quale motivo il poema di Oppiano indulgesse di continuo a similitudini di ogni tipo (il Rebuffat ne elenca all’incirca una settantina sia con comparanti antropici che non), tanto da giustificare i giudizi di eccellenza già espressi in proposito non solo dal Rutterhusius (praeter ceteros poetas (vix Homerum ipsum excipio) Oppianus excellit) e dai critici successivi, bensì anche dall’anonimo biografo autore del tardo ge/noj oppianeo e da Eustazio.

 

Di grande utilità, infine, per le precisione dei riferimenti e la ricchezza dei dati raccolti, appare la ,Bibliografia oppianea‘ (247-256), - è forse da lamentare la decisione di riunire indistintamente per nome dell’autore tutto il materiale a disposizione (edizioni, traduzioni, articoli, ecc.) -, che in parte completa, in altra parte è completata dalla bibliografia di F. Fajen (in: Lustrum, 41 (1999), 75-104) per gli anni 1930-1999. Segue, quindi, una ,Bibliografia di opere citate‘ (257-258) e tre indici: l’ ,Indice delle cose notevoli‘ (259-263) - ripartito a sua volta in: 1. ,Oppiano e gli Halieutica‘; 2. ,Autori e opere‘[22]; 3. ,Poesia e retorica‘; 4. ,Ittiologia e alieutica‘ -; l’ ,Indice dei passi citati‘ (265-269), relativo, purtroppo, solo agli Halieutica; l’ ,Indice generale‘ (271-273).

 

Se il giudizio complessivo sull’opera non può essere che positivo, vi sono, tuttavia, a mio giudizio, una serie di aspetti ovvero talune questioni particolari, che non convincono del tutto o forse avrebbero richiesto una maggiore elaborazione. Mi pare, soprattutto, che lo studioso mostri una non approfondita conoscenza della retorica imperiale e delle sue numerose problematiche, come mostra, del resto, anche lo scarso richiamo alla bibliografia sull’argomento, ferma ai lavori del Norden o, per quanto riguarda in generale la retorica classica, aperta unicamente allo Handbuch del Lausberg.

 

È da lamentare, in particolare, in un libro che si dice attento alle componenti retoriche di un’opera poetica di piena età imperiale e per la quale si richiama di continuo il raffronto con la letteratura progimnasmatica ed eulogistica, l’assenza di contributi fondamentali sull’argomento, quale, per fare solo un esempio tra i più eclatanti, quello sul discorso di lode di L. Pernot, dal quale avrebbe potuto trarre materiale e raffronti utili per le proprie ricerche, così come correggere alcune affermazioni, ma anche i ben noti lavori di B. Schouler  (La tradition héllénique chez Libanios, Paris 1984) e di M. Papillon (La théorie du discours chez Hermogène le Rhéteur: essai sur les structures linguistiques de la rhétorique ancienne, Paris 1988) [23].

 

Non si comprende bene, in effetti, quale ragione abbia spinto l’autore a prendere in esame tra i moduli compositivi a disposizione della poesia didascalica, ugualmente utilizzati negli Halieutica di Oppiano, i mirabilia piuttosto che i parallelismi, le similitudini piuttosto che le metafore, ecc. Voglio dire che la preferenza accordata ad alcuni tra i numerosi strumenti formali riconosciuti dalla trattatistica antica, sia per la prosa che per la poesia, risulta assolutamente arbitraria o meglio non chiarita preventivamente.

 

Nell’ ,Introduzione‘ (13) l’autore si limita semplicemente ad indicare: „Nel determinare il novero dei moduli compositivi … ho ritenuto di non dovermi vincolare alla trattatistica retorica antica“; per poi precisare: „Sarebbe senz’altro assurdo escludere dal novero dei moduli compositivi la similitudine e la gnome, che compaiono in molti manuali antichi di retorica; ma sarebbe altrettanto assurdo escluderne, solo perché essi non sono esplicitamente codificati nei manuali antichi di retorica, quelli che ho definito amplificazione e coinvolgimento del lettore“.

 

Ora, a parte il fatto che all’amplificatio, quale strumento specifico (ma non esclusivo) del discorso epidittico, vengono dedicate da Aristotele diverse pagine della sua Retorica, così come se ne occupano lo Pseudo-Longino, Cicerone, Quintiliano, Menandro, Teone, Ermogene, Aftonio, ecc.[24], per quale motivo, ad es., lo studioso non ha analizzato, nella sua ricerca sulle tecniche compositive oppianee, anche il parallelismo, strumento fondamentale per cogliere sia lo sviluppo del pensiero antico in età imperiale, ma anche gli atteggiamenti mentali tanto dell’esecutore quanto del suo pubblico? Si tratta, del resto, di un ,modulo compositivo‘ – la paternità dell’espressione va, dunque, rivendicata ad Elio Pellizer (Modelli compositivi e «Topoi» sapienziali nelle «Opere e i giorni» di Esiodo, in: in Studi omerici e esiodei I, Roma 1972, 29-58: 54) – tipico della produzione sapienziale esiodea e didascalica in genere, nel cui solco s’inseriscono gli Halieutica di Oppiano.

 

Discutibile mi pare, altresì, la scelta di inserire la su/gkrisij tra i moduli contenutistici, separandola così dall’amplificatio. Il paragone, infatti, è notoriamente uno dei mezzi di amplificazione più conosciuti, e gioca un ruolo di primaria importanza nella retorica encomiastica di epoca imperiale[25]. Perché, dunque, il Rebuffat, senza alcuna avvertenza che chiarisca la sua posizione, ha optato per una separazione dei due moduli, per giunta presentandoli in due diverse sezioni? Ma, il dubbio che lo studioso abbia confuso i termini della retorica colpisce anche la citazione eustaziana di p. 187, n. 1, portata dal Rebuffat a testimonianza dell’eccellenza di Oppiano nella similitudine; eccellenza riconosciuta anche dagli antichi esegeti. Io credo, però, che il giudizio di Eustazio riguardi l’abilità del poeta nell’amplificare il proprio testo attraverso paragoni e non già similitudini. La citazione eustaziana suona infatti così: ei)si\ de\ toiau=tai parabolai\ kai\ para\ t%= glukuta/t%  )Oppian%= (Comm. in Il., III, p. 667, 12 van der Valk). Parabolh/, assieme a su/gkrisij, è termine tecnico per designare il paragone e non la similitudine[26]. Ne è una riprova il fatto che il giudizio formulato da Eustazio riguarda un tipo particolare di parabolai/, definite appunto au)chtikai/ (ibid., l. 1); il che ci riporta, senz’altro, nell’ambito dell’au)chsij.

 

Un proficuo esame delle tecniche compositive degli Halieutica, anche in vista della sua più corretta collocazione all’interno del panorama dell’epica imperiale, dovrebbe tener conto della coeva produzione in esametri o quanto meno degli esempi forniti dai poemi didascalici contemporanei all’autore. In tal caso, se il Rebuffat ha l’innegabile merito di proporre in varie occasioni dati di raffronto provenienti non solo dai precedenti ellenistici di Arato e Nicandro, ma anche dalle opere di Dionisio il Periegeta, Oppiano di Apamea, Marcello di Side, dai Lithica orfici e, laddove possibile, dalla parafrasi anonima degli Ixeutica (sarebbe stato, forse, il caso di non trascurare neppure i frammenti del poema astronomico di Doroteo di Sidone, così come, per un altro versante, dare maggior peso agli Halieutica di Ovidio[27]), non sempre, per converso, appare esatto nella formulazione di alcuni giudizi mirati.

 

Senza voler affatto ridimensionare l’opinione del Rittershusius sullo stile di Oppiano, non è, ad es., esatto asserire che nella Descriptio orbis di Dionisio d’Alessandria la similitudine compare raramente (242) o che in essa non vengano affatto utilizzati i moduli compositivi propri dell’epica eroico-mitologica (12). Quanto al primo punto, la frequenza con cui il Periegeta utilizza similitudini in rapporto sia all’estensione dell’intero poema geografico che alle istanze estetiche dello stesso non è certo trascurabile (vi è in media una similitudine, sviluppata o semplicemente accennata, ogni ottanta versi!)[28]. Per ciò che riguarda il secondo giudizio, non posso certo dilungarmi qui sulle tecniche di composizione poetica della Descriptio dionisiana, né tanto meno fornire una lista di tutti i moduli compositivi utilizzati da Dionisio e che lo avvicinano all’epica eroico-mitologica[29]. Va, però, almeno ricordato, contrariamente a quanto afferma il Rebuffat, che lo zh=loj   (Omhriko/j, inteso, naturalmente, anche come imitazione ed utilizzazione dei moduli compositivi del modello omerico, aspetto sui cui hanno insistito tutti i lettori moderni della Descriptio, era avvertito fin già dai commentatori antichi. Non è un caso che Eustazio abbia dedicato i suoi Commentarii unicamente ad Omero e Dionisio: ciò significa che quest’ultimo era sentito certamente come un emulo del Poihth/j e, soprattutto, che la sua opera rivestisse, per così dire, un’importanza ,ecumenica‘[30]. Anzi, dal momento che il commento dionisiano venne redatto qualche tempo prima di quello dedicato ad Omero[31], se ne deduce che agli occhi del vescovo di Tessalonica la lettura e l’nterpretazione della Descriptio orbis rappresentava un’ottima palestra propedeutica all’agone maggiore, vero e proprio. Difatti, nella lettera prefatoria a Giovanni Duca, Eustazio, pur consapevole dei limiti che il poema di Dionisio esibisce nell’informazione geografica, non risparmia parole per esaltarne la dictio epica[32]. Più esplicito nel raffronto con Omero è lo scriba anonimo, cui si deve il <G>Ge/nos</G> presposto al codice Vat. Chis. R. IV. 20[33]. Per esso, Dionisio „si compiace di imitare Omero“, impiega „una forma raffinata nella sua opera“, lascia prevalere l’epanalessi e persegue uno „stile fiorito“, tale da far sì che il poeta, „come un eccezionale pittore“, mirando l’infinità dei popoli, sa trascegliere con maestria tra i molti nomi quelli che conferiscono maggiore bellezza all’opera; risulta, insomma, appropriata la scelta lessicale, colorito lo stile, che evita di cadere nella secchezza di un’elencazione nuda e cruda di nomi e popoli. L’arte di Dionisio è, quindi, definita „versatile“, dal momento che sa armonizzare i contenuti, ora addolcendo le parole con uno stile ricercato, ora cesellando con raffinatezza la materia a disposizione.

 

Come che sia, lo stile del poema dionisiano, su cui si avverte, come per gli Halieutica, l’influenza della Seconda Sofistica, si fa apprezzare volentieri dal lettore per le metafore e le similitudini, ma anche per le parafrasi, le amplificazioni, le allitterazioni, le anafore, le metonimie, le epanalessi. In particolare, laddove l’autore si trova dinanzi ad un’evidente penuria di dati ed informazioni di carattere geografico, la descrizione dei territori di volta in volta evocati (in particolare le zone periferiche e del mitico remoto Oriente) viene diluita e resa più interessante tramite accumulazioni, iperboli, giochi antitetici e luoghi comuni, presi in prestito non solo dalla retorica, ma anche e, direi, significativamente dal ricco bagaglio poetico dell’epica tradizionale.

 

Ancora: Oppiano non è, come afferma lo studioso (29), l’unico poeta didascalico a non far cenno nel poema alla propria esperienza autoptica, anzi ad escluderla esplicitamente. Nuovamente nella Descriptio orbis di Dionisio, non solo non sembrano esservi descrizioni di paesi o città che tradiscano l’e)ce/tasij del poeta, bensì è lo stesso poeta a negarla e, in certo qual modo, a ,bandirla‘ in maniera esplicita nei vv. 707-717, laddove afferma di poter descrivere facilmente le correnti del mar Cappio, „pur non conoscendone le remote rotte, né avendolo attraversato su una nave: ché io non trascorro la vita sulle nere navi, né ho ereditato il commercio avito, né mi reco fino al Gange, attraverso il mare Eritreo, come fanno altri,  incuranti della propria vita, alla ricerca di immense ricchezze; neppure mi mescolo agli Ircani, né esploro le alture del Caucaso nella regione degli Ariani Eritrei“. Si tratta di una dichiarazione di poetica ben precisa, che distingue la Descriptio da tutti i testi congeneri.

 

In realtà, la tesi dell’autore si presenta in questo punto alquanto contraddittoria: se, infatti, egli da un lato ammette senza remore che Oppiano esclude lui stesso l’esperienza autoptica, dall’altro si sforza di dimostrare che per i libri III-V, dedicati alle tecniche della pesca, l’esperienza personale abbia giocato un ruolo importante. Il che potrebbe essere ammesso, se si considera, ad es., per quanto riguarda l’epica didascalica, il caso di Marcello di Side (fr. 3) e dell’autore dei Cynegetica (4, 16-18): entrambi i poeti presentano il proprio testo come il risultato dell’unione di esperienze personali e di esposizioni altrui[34]. Tuttavia, ciò che non convince affatto è, a mio avviso, il voler a tutti i costi rinvenire spie d’autopsia nel poema oppianeo, per giustificare così la vivezza di talune descrizioni di scene di mare, „ritratte con un’attenzione ai particolari visivi davvero impressionanti“. Così facendo, non solo si finisce col mortificare la capacità immaginativa del poeta, ma, perdendo di vista la prospettiva suggerita, in fondo, dello stesso produttore del testo poetico, si finisce con l’oscurare una consapevole e mirata scelta estetica, di matrice ellenistica, che preferisce l’ispirazione della biblioteca a quella della realtà esterna[35]. Certo, nessuno esclude che Oppiano, durante la sua esistenza, abbia potuto personalmente osservare scene di pesca di particolare suggestione, così come, ad esempio, sarebbe improbabile e fuori da ogni logica ritenere che Dionisio d’Alessandria, a fronte della sua dichiarazione di non aver mai intrapreso viaggi sulle „nere navi“, non si sia mai allontanato dalla sua patria d’origine. Ma, nel momento stesso in cui poeti come Oppiano e Dionisio rifiutano esplicitamente il ricorso all’autopsia, optando per un’ispirazione che venga dai libri, inseriscono il proprio poema e la poetica che lo sostiene nel circuito di testi che, a partire dall’età ellenistica, si erano dichiarati, nella polemica sulle fonti, a favore dei documenti scritti[36]. Negare questo significherebbe misconoscere le istanze letterarie del poema oppianeo e le sue qualità di poeta doctus.

 

Vorrei, ora, attirare l’attenzione dei lettori su alcune questioni più particolari, ma non meno importanti, che hanno colpito ugualmente la mia attenzione.

 

Anzitutto, segnalo di passaggio che il Rebuffat utilizza per il poeta epico Panteleo la forma Panteleio, recentemente respinta da G. D’Ippolito: Panteleo, in: L. Torraca (a cura di), Scritti in onore di Italo Gallo, Napoli 2002, 227-245: 226-227. Quanto poi ad Antigono Caristio come autore della Rerum mirabilium collectio, la paternità dell’opera, pacificamente accolta dallo studioso, è stata al contrario definitivamente controbattuta sia da Olimpia Musso, ultima editrice dei frammenti superstiti (Napoli 1986), che da Tiziano Dorandi, il quale ha escluso lo scritto tra le opere di Antigono (Paris 1999).

 

Affermare, poi, per giustificare l’incoerente collocazione dei vv. 1,580-583 e 2,628-641 - gli unici assieme a 2,225-231 a risultare fuori posto rispetto all’accurata disposizione generale della materia - che il poeta si sia fatto prendere la mano dal suo soggetto principale (i delfini), come „un regista dal suo primo attore“ (53, n. 30), mi sembra un argomento alquanto opinabile e semplicistico, soprattutto laddove si consideri che lo spazio occupato da questa particolare specie marina in rapporto alla lunghezza dell’intero poema (circa 4500 versi) non è tale da far parlare di sé come di un vero protagonista: anche ad altri pesci (quali il qu/nnoj,  i ke/th, l’a)nqi/aj Oppiano dedica più di una volta il suo calamo. Nulla esclude, invece, che per i versi in questione possa parlarsi d’interpolazioni scolastiche o comunque operate in epoca molto antica tanto da entrare a far parte del testo receptus.

 

Assieme alla prosopopea di Dike dei Phaenomena di Arato (vv. 123-136), considerata dal Rebuffat come l’unica tra quelle relative ad agenti inanimati, andava, invece, senz’altro ricordato il discorso del fiume Scamandro presente in Hom. Il. 21,214ss., ben noto ai tecnigrafi antichi, tanto da essere additato da Menandro il Retore (2,374) come esempio da non trascurare da parte degli oratori, ma anche ampiamente imitato (vedi D. Chr. 4,85; 11,32; Aristid. Rhet. 351; Luc. D.M. 10). Non è giusto, pertanto, lasciar intendere, sulla base dei soli esempi libaniani proposti (118-119), che tra gli esercizi retorici della Seconda Sofistica non vi fosse quello di far parlare agenti inanimati, gli a)/yuxa, cui, invece, anche Ermogene e Nicola di Mira fanno cenno nelle proprie rispettive opere[37]. Anzi, sarebbe stato interessante, alla luce di tale novità, indagare meglio i rapporti tra prosa e poesia e, soprattutto, verificare se tali tentativi di umanizzazione del mondo animale in Oppiano rispondano unicamente ad istanze di tipo etico e ,filosofico‘ oppure non siano richieste da effettive esigenze di stile. Come sottolinea opportunamente L. Peront, la prosopopea in particolare di a)/yuxa „constitue une pause en style “détendu” … conformément au développement de la douceur dans l’esthétique épidictique de l’époque imprériale”.

 

Un altro punto su cui si possono sollevare riserve rispetto all’impostazione del libro è rappresentato dalla scelta di inserire l’elemento dei mirabilia tra i moduli formali (quali l’amplificazione, la sinonimia, la prosopopea, ecc.), piuttosto che tra quelli contenutistici. Invero, a tal proposito, il Rebuffat nella sua ,Introduzione‘ (14) avverte che si tratta di una collocazione alquanto difficile. Ciononostante, senza chiarire adeguatamente le ragioni della sua scelta, decide di inserire tale sezione all’interno della seconda parte del suo studio. Personalmente, credo che non si debba condividere tale posizione ed anzi occorra considerare i mirabilia ora, per usare le parole stesse dell’autore, una categoria particolare delle ,cose poetiche da dire‘ e, dunque, da trattare assieme ai moduli contenutistici, ora, invece, pure e semplici notizie ,scientifiche‘ comprese preventivamente da Oppiano nel piano generale del suo poema e da inserire assieme alle numerose altre notizie che egli ha voluto riferire al suo pubblico. O forse non è da considerare una notizia scientifica quella relativa al pesce ,fermatavi‘ di 1,217-243? Che si tratti, del resto, di una ,notizia‘, pur stupefacente, è lo stesso Rebuffat ad ammetterlo (139-140), laddove, a supporto di tale opinione, ricorda come non solo Plutarco vi dedichi un’intera ,seduta‘ delle sue Questioni conviviali (7,641a-641e), bensì sottolinea con W. D’Arcy Thompson (A glossary of Greek fishes, London 1947, 68-70) il fatto che almeno fino in età moderna abbiano creduto fermamente all’esistenza di un ,fermatavi‘ diversi uomini di scienze.  Nel caso, invece, dei qauma/sia  relativi alla murena (1,554-579), al pescecane (1,734-771), al polpo (4,268-299) ed al sargo/j (4,308-344), se è vero, almeno in parte, che Oppiano „non riferisce questi mirabilia per il gusto di fornire al lettore notizie bizzarre e compiacerne la credula curiosità: li utilizza piuttosto come strumento per enfatizzare la presenza di sentimenti e passioni nei propri personaggi“ (143), è fuor di dubbio che si tratta parimenti di informazioni aggiuntive da far rientrare al massimo nella sezione relativa ai moduli contenutistici. Io credo, però, che neppure possa escludersi a priori tra le finalità di tali inserzioni quella, legittima, da parte del poeta di catturare così l’attenzione del pubblico tramite elementi favolistici e ,miracolosi‘. Non si tratta di giudicare della credulità o meno del lettore antico. Di qui l’insistenza da parte di Oppiano sulla facoltà immaginativa e visiva del suo pubblico, sempre più attratto dal prodigioso e dal ,fuori dal comune‘ in un’epoca culturale in cui non solo lo spettacolare diviene „a central dynamic of the performance and politics of power“, ma anzi „the construction of the subject in the regime of the visual is a central dynamic in the construction of cultural identità“[38]. Quanto all’aspetto enfatico dei mirabilia nella descrizione di taluni ,personaggi‘, andava senz’altro affermato, a supportare le idee dello studioso, che esso rientra nei procedimenti tipici della retorica eulogistica attenta così a caratterizzare un ,oggetto‘ particolarmente eminente per intensificarne l’elogio[39]. Come si vede, ci troviamo nuovamente dinanzi all’ipotesi, sopra appena accennata, che porterebbe effettivamente a considerare gli Halieutica un esempio di elogio in versi degli animali marini e della pesca, così come Oppiano un abile retore che, alla stregua della maggior parte dei tardi poeti epici, si uniforma in maniera personale e originale ai canoni tecnici ed estetici della neo-sofistica[40].

 

Arrivo, così, al problema rappresentato dalle apostrofi ai pesci di Hal. 1,209-211 e 4,345-347. Il Rebuffat, nel sottolineare la straordinarietà della soluzione oppianea, applicata com’è ad essere marini, giustifica questa modalità di allocuzione con il tentativo messo in atto dal poeta di offrire al pubblico „un poema improntato all’umanizzazione del mondo marino“ (122). A riprova di tale conclusione, starebbe, secondo l’autore, l’assenza di identiche soluzioni formali nella restante produzione didascalica, eccezion fatta per i Lithica, in cui esse assolvono ad una funzione puramente strutturale, e per i Cynegetica, ove è in discussione proprio l’imitazione ed il plagio dell’omonimo poeta di Apamea nei confronti degli Halieutica. A mio avviso, visto il significativo naufragio della precedente letteratura didascalica in versi ed in particolare dei modelli ittiologici utilizzati da Oppiano, non vi è nulla che autorizzi a sostenere una conclusione del genere, se si considera, ad es., che negli Halieutica di Ovidio, presi troppo poco in considerazione nel presente studio, nei poco più di 130 versi rimasti incontriamo ben due apostrofi, la prima, proprio com’è nel poema di Oppiano, al pompilo (v. 101), la seconda allo storione (v. 134). Il che se da un lato lascia concludere che si trattasse di un topos poetico e non, dunque, di un elemento originale[41], dall’altro che in autori congeneri (forse nello stesso Ovidio) la ricorrenza di tali apostrofi doveva essere ben più alta.

 

Tra le interruzioni del flusso narrativo ad opera dello stesso autore, il Rebuffat inserisce anche quelle, espresse tramite verba audiendi, in cui il poeta afferma di aver ricevuto una determinata notizia. Per e)da/hn, accanto all’esempio di Cyn. 2,561 e Lith. 698 e 748 andava aggiunto, tuttavia, Sch. in D.P., v. 714 (p. 453, 5-6 Müller), dov’è citato un verso dei Lithica di Dionisio, in cui, stando alla ricostruzione del Bernhardy, compariva l’espressione e)ceda/hn. Se, poi, nella Descriptio orbis, diversamente dagli Halieutica, non vi sono futuri di verba videndi, la cui funzione sarebbe quella di richiamare il lettore al suo ruolo di osservatore quando la narrazione è già nel vivo[42], sono numerose, al contrario, le occorrenze di verba videndi all’ottativo (v. 209, 667, 813, 826, 834, 851, 923, 991, 1053, 1075), che corrispondono alle espressioni con fai/hj o)ra=n e simili (i)/doio, qhh/saio, ecc.) che incontriamo diverse volte in Oppiano e nei Cynegetica. Tali formule, dunque, caratterizzano, in termini di coinvolgimento del lettore, anche la frattura del flusso narrativo della Descriptio orbis. Non è, pertanto, assolutamente esatto affermare che esse „si trovano altrove solo una volta (Phaenomena 196)“ (127). Parimenti, negli esempi di p. 125, n. 2, relativi ai poeti didascalici che utilizzano imperativi di verba dicendi e sentiendi (quali, ad es., fra/zeo, ske/ptoio, peu/qeo), andava senz’altro annoverata la Descriptio di Dionisio, dove l’espressione fra/zeo compare diverse volte e sempre in prima sede (v. 331, 762, 894, 1080, 1128, ecc.).

 

Per concludere, segnalo la presenza on-line di una bibliografia oppianea, sfuggita al Rebuffat, ma stilata a partire dal 1997 da M. Cuypers[43], dov’è possibile reperire ulteriori titoli utili sugli Halieutica.

 

 

Eugenio Amato, Fribourg (Suisse)

Eugenio.Amato@unifr.ch

 

 



[1] Si pensi, ad es., al noto studio di C. S. Baldwin: Ancient Rhetoric and Poetic, New York 1924.

[2] Così J. Walzer: Rhetoric and Poetics in Antiquity, Oxford 2000, xi.

[3] Sulla problematica e la relativa bibliografia, vedi L. Pernot: La Rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain, I, Paris 1993, 19.

[4] Mi limito a ricordare il contributo rivoluzionario e fondamentale di B. Gentili: Poesia e pubblico in Grecia antica da Omero al V secolo, Roma-Bari 19851.

[5] Una nuova ed originale storia della retorica antica è stata offerta di recente da L. Pernot: La Rhétorique dans l’Antiquité, Paris 2000. Vedi, inoltre, G. A. Kennedy: A new history of classical Rhetoric, Princeton 1994.

[6] L’utilità di mettere in versi discipline tecniche è sottolineata anche da Galeno (de antidotis, vol. XIV, 31-32, 115 Kühn).

[7] Nel proemio, Ovidio, prima di passare all’argomento vero e proprio del suo poema, elenca una serie di qualità e pregi caratteristici delle singole specie animali, trattando per ultimo quelle dei cani. A tal proposito chiede al lettore: Quid laus prima canum? (v. 75). Quindi, dopo aver accennato alla loro impetuosa audacia e all’ottima sagacia, dà inizio all’argomento del proprio poema vero e proprio (v. 82: Noster in arte labor positus, spes omnis in illa).

[8] Per un repertorio aggiornato, vedi M. Billerbeck - C. Zubler: Das Lob der Fliege von Lukian bis L.B. Alberti, Bern 2000.

[9] L’unico studio che fa veramente testo è quello di E. L. Bowie: Greek Sophists and greek poetry in the Second Sophistic, in: ANRW II, 33/1 (1989), 209-258. Per il passato, vedi E. Norden: La prosa d’arte antica dal VI secolo a.C. all’età della Rinascenza, II, trad. it. Roma 1986, 889-892; E. Rohde: Der griechische Roman und seine Vorläufer, Leipzig 19144, 359-361. In ogni caso, un contributo rilevante su tale problematica potrà venire in futuro solo a seguito dell’attento studio delle tecniche compositive dei singoli poeti. Frattanto, segnalo il bel libro di F. Ciccolella: Cinque poeti bizantini: anacreontee dal Barberiniano greco 310, Alessandria 2000, in cui sono ottimamente indagate le influenze della retorica imperiale sulla poesia tardo-antica.

[10] Cf. Peront [n. 3], 62-63.

[11] Vari esempi sono raccolti nel primo volume die Griechischen Dichterfragmente der Römischen Kaiserzeit di E. Heitsch (Göttingen 1963). Per una rassegna ed un’utilissima bibliografia, vedi A. Stramaglia: Amori impossibili. PKöln 250, le raccolte proginnasmatiche e la tradizione retorica dell’ ‘amante di un ritratto’, in: B.-J. und J.-P. Schroder (hsg. von), Studium declamatorium. Untersuchungen zu Schulübungen und Prunkreden von der Antike bis zur Neuzeit, München-Leipzig 2003, 213-239.

[12] Filostrato ricorda, ad es., il caso dei sofisti Scopeliano, autore anche di un poema epico intitolato Gigantiade, Ippodromo, che componeva nomi lirici e Isagora, cui attribuisce una tragedia (cf. Philostr. VS 1,21 [518]; 2,27 [620]; 2,11 [591]). Ma, lo studio della poesia assume un ruolo significativo per tutti gli oratori, se Nicagora definiva la tragedia „madre dei sofisti“ (2,27 [620]), Polemone riteneva che la poesia dovesse essere portata sui carri, come la prosa in spalla (1,25 [539]), Ippodromo si rifaceva ad Omero come „padre e voce“ dei sofisti, ad Archiloco come il loro „soffio“ (2,27 [620]). Sulla questione, vedi G. Anderson: The pepaideumenos in action. Sophists and their outlook in the early empire, in: ANRW II, 33/1 (1989), 79-208: 69-85 e C. Castelli: <G>Mh/thr sofistw^n</G>. La tragedia nei trattati greci di retorica, Milano 2000, 11-13.

[13] Come opportunamente avverte lo studioso: „Un autore che volesse comporre un poema epico in greco, doveva comporlo in esametri. Ciò favoriva la persistenza di una lingua poetica codificata, che essenzialmente corrispondeva a quella utilizzata nei poemi omerici; i singoli autori potevano in una certa misura personalizzarla, ma l’esercizio di tale potere fu, tutto sommato, esiguo“ (11). Importanti osservazioni al riguardo venivano già da F. R. Adrados: Historia de la lengua griega de los orígenes a nuestros días, Madrid 1999, 99, sconosciuto al Rebuffat.

[14] In particolare, si distingue, sul versante linguistico, la monografia di A. W. James: Studies in the language of Oppian of Cilicia, Amsterdam 1970.

[15] Lo stile degli Halieutica è stato recentemente studiato, in contemporanea col Rebuffat, da J. C. Iglesias Zoido: Estructura y elementos estructuradores en las Haliéuticas de Opiano de Cilicia, in: Anuario de Estudios Filológicos (Extremadura) 25 (2002), 205-20; Id., Opiano y Virgilio: la influencia de las Geórgicas sobre la estructura de las Haliéuticas, in: Emerita 70, 2002, 283-304. Naturalmente, lo studioso italiano non poteva tener conto degli studi del collega spagnolo.

[16] Si veda, ad es., il ragguaglio sulle modalità relative al comporre amplificando di p. 82-83.

[17] Per cui esistono diversi contributi: vedi M. Wellmann, in: Hermes 30 (1895), 161-176; R. Keydell, in: Hermes 72 (1937), 411-434; J. Richmond, Chapters on greek fish-lore, Wiesbaden 1973, 46.

[18] Richmond [n. 17], 47.

[19] Cf. B. Effe: Dichtung und Lehre. Untersuchingen zur Typologie des antiken Lehrgedichts, München 1977, 151-152.

[20] Cf. H. Lausberg: Elementi di retorica, trad. it. Bologna 1969, § 72.

[21] Cf. H. White: Studies in late Greek poetry, Amsterdam 1987, 10.

[22] Segnalo due piccole sbavature: 262: ,Matthaeus evangelistas‘ (sic) e 263: ,Rhetorica anonima‘ (sic).

[23] Del Papillon, credo, andavano tenuti presente gli Elements de Rhétorique classique (Paris 1990), così come la recente edizione commentata dei Progymnasmata di Elio Teone (Paris 1997). Invero, il Rebuffat ignora la maggior parte dei titoli sulla retorica della Seconda Sofistica evocati nella presente recensione.

[24] Fonti e ampia discussione, assieme alla bibliografia relativa, in Pernot [n. 3], 675-679. Se è pur vero, come afferma il Rebuffat, che „nella retorica antica … non troviamo una trattazione dedicata all’amplificazione poetica, e neppure un termine specifico che la identifichi e la designi“ (67) – lo studioso richiama in nota alcuni passi del de figuris Demosthenicis di Tiberio, del de compiositione verborum di Dionigi di Alicarnasso e, in particolare, del de elocutione di Demetrio, dove vengono usati termini che potrebbero essere ricondotti all’amplificatio poetica, particolarmente quella omerica – non bisogna, tuttavia, dimenticare che il termine <G>au)xhsis</G> ricorre proprio in riferimento ad Omero in Men. 2,369.

[25] Cf. Pernot [n. 3], II, 690-710.

[26] Cf. Pernot [n. 3], II, 690, n. 160.

[27] Ad es., sarebbe stato, credo, certamente proficuo e più opportuno per un corretto esame dei ,moduli onomastici‘ (97-112) esaminare la tecnica adottata nel precedente ovidiano, piuttosto che estrapolare (100-102) esempi dal Morgante del Pulci e da Lo guarracino, testo anonimo in dialetto napoletano di fine ‘700, sui quali può, al contrario, operare l’influenza degli Halieutica del poeta latino.

[28] Sottolineo, comunque, che, contrariamente a quanto sostiene il Rebuffat (242), i vv. 575-579 della Descriptio non contengono alcuna similitudine.

[29] Per una presentazione generale dello stile di Dionisio, mi permetto di rimandare all’ ,Introduzione‘ che ho predisposto per la mia edizione italiana della Descriptio in corso di pubblicazione nella collana dei ,Testi a fronte‘ della Bompiani. Tale problematica è stata, per quanto ne so, affrontata recentemente anche da R. Hunter: Aspects of technique and style in the Periegesis of Dionysius, in: Des Géants à Dionysos. Mélanges de mythologie et de poésie grecques offerts à Francis Vian, éd. par D. Accorinti - P. Chuvin, Alessandria 2003, a me ancora inaccessibile.

[30] Cf. C. Jacob: Le sujet et le texte. Sur l’identité de Denys le Périégète, in: Lalies 4 (1985), 215-239: 226.

[31] Per la datazione dei commenti eustaziani, vedi A. Kazhdan: Studies on Bizantine Literature of the Eleventh and Twelfth Centuries, Cambridge-Paris 1984, 115-195.

[32] Cf. Eust. Comm. in D.P. p. 205,22-26; 216,27-30 Müller.

[33] L’edizione più affidabile della Vita Chisiana è tuttora quella di R. Kassel: Antimachos in der Vita Chisiana des Dionysios Periegetes, in: Catalepton. Festschrift für Bernhard Wyss zum 80. Geburstag, hrsg. von C. von Schäublin, Basel 1985, 69-76 (= Kleine Schriften, hrsg. von H.J. Nesselrath, Berlin-New York 1991, 403-411).

[34] Anche lo Pseudo-Scimno nel suo Circuito della Terra dichiara (vv. 109-128) di aver affiancato alle fonti scritte la personale autopsia.

[35] Su tale problematica, limitatamente, però, all’epoca ellenistica, vedi C. Cusset: La Muse dans la Bibliothèque. Réécriture et intertextualité dans la poésie alexandrine, Paris 1999.

[36] Per un’attenta analisi del locus dionisiano, vedi E. Amato: Note testuali ed esegetiche alla Descriptio orbis di Dionisio d’Alessandria (I), in: Arctos 36 (2002), 7-17.

[37] Per l’intera problematica, vedi Pernot [n. 3], I, 399-403.

[38] Così S. Goldhill: The erotic eye: visual stimulation and cultural conflict, in: S. G. (ed.), Being Greek under Rome. Cultural Identity, the Second Sophistic and the Development of Empire, Cambridge 2001, 154-194: 194.

[39] Cf. Pernot [n. 3], 282-284.

[40] Cf. A. W. James: ‘The honey on the cup’ in Oppian and others, in: PCPA 12 (1966), 24-36: 30

[41] L’apostrofe al pompilo, come ricorda lo stesso Rebuffat (121, n. 18), compare anche in Erinna (SH fr. 404), in Nicandro (fr. 16 Gow-Scholfield) ed in Pancrate (SH fr. 598).

[42] Tuttavia, accanto ad Arat. 223 e 727; Nic. Th. 513; Lith. 234, si deve prendere in considerazione l’esempio di D.P. 280 (kixh/seai), sfuggito all’autore.

[43] M.Cuypers: A Hellenistic Bibliography (www.gltc.Leidenuniv.nl).