Erik Nis Ostenfeld (ed.) with
the assistance of Karin Blomqvist and Lisa Nevett, Greek Romans and Roman Greeks. Studies
in Cultural Interaction, Aarhus: Aarhus University Press 2002 (Asma. Aarhus Studies in
Mediterranean Antiquity: III), 288 p. Euro 30,47. ISBN 87-7288-796-6.
I primi tre secoli dellera cristiana
rappresentano, comè ben noto, un periodo dinterazione e fervido rapporto
(soprattutto dal punto di vista socio-culturale) tra i Greci ed i Romani, il cui potere
politico, che sotto la spinta di nuovi e definitivi impulsi degli imperatori della
dinastia flavia prima, di quella degli Antonini poi raggiunge vette eccelse, viene a
confrontarsi con la rinascita culturale greca della Seconda Sofistica, in uno dei periodi
che Edward Gibbon ha definito, forse con un tantino di eccesso, il più felice del genere
umano. A questo aspetto della cultura delletà imperiale, cui di recente vengono
dedicati vari ed importanti libri[1] si rifà linteressante
volume (terzo degli Aarhus Studies in Mediterranean
Antiquity, serie di studi e monografie pubblicato dal ,Centre for the Study of
Antiquity dellUniversità di Aarhus) curato con particolare eleganza formale e
in una piacevole veste tipografica da Erik Nis Ostenfeld con la collaborazione di Karin
Blomqvist e Lisa Nevett. Il libro raccoglie le 18 relazioni lette durante lincontro Greek Romans or Roman Greeks? Interaction,
confrontation and Cultural Responses in the first three Centuries of the Roman Empire,
tenutosi a Lund dal 25 al 28 giugno 1998, e diviso opportunamente in due sezioni: gli
,Archaeological Studies [2398] e i
contributi relativi a ,Philology, History and History of Ideas [99246]. Il titolo, come
chiarisce puntualmente il curatore nella ,Prefazione, è divenuto nel frattempo Greek Romans and Roman Greeks ,to clearly
accommodate the fact that the contributors deal with both Romans who became
Greek and Greeks who became Roman [5]. Invero, allarcheologia sono dedicati solo 6
contributi, rispetto ai 12 della sezione storico-filologica-letteraria.
Nei primi due di H. Wittaker [,Some
Reflections on the Temple to the Goddess Roma and Augustus on the Acropolis at
Athens, 2539] e di A. Karivieri (Just one of the Boys - Hadrian in the
Company of Zeus, Dionysus and Theseus, 4054) viene messo bene in luce il
progetto politico degli imperatori romani, a partire già dalletà di Augusto ed in
particolare con Adriano, di assicurarsi, attraverso unabile propaganda culturale ed
unaltrettanto sottile operazione artistica, leffettivo potere sociale in
Grecia. Un caso emblematico è rappresentato dalla costruzione del Tempio di Augusto e
Roma sullAcropoli di Atene, la cui datazione, secondo Wittaker, dovrebbe cadere dopo
il 10 a.C., in connessione con la visita di Gaio Cesare (nipote e figlio adottivo di
Augusto) ad Atene e la cui ricostruzione, visto che di esso non vi è menzione nelle fonti
letterarie, è stata resa possibile grazie a vari ritrovamenti, mentre
lidentificazione del culto di Augusto e Roma è resa certo da uniscrizione
votiva (IG II2 3173). Si tratta di una testimonianza di primo piano per la
romanizzazione di Atene al tempo del primo imperatore romano, il quale in questo modo
tentò di rendere onore alle campagne romane contro i Parti, idealmente paragonandole alle
guerre tra i Greci e i Persiani, dinanzi agli occhi dei cittadini ateniesi. Per parte sua,
limperatore Adriano, che, comè noto, si recò tre volte ad Atene (dal 124/125
al 131/132), dando vita ad una serie di riforme costituzionali e alla fondazione di vari
edifici che attirarono ad Atene lélite del mondo Greco (testimoni solidali Pausania
e Plutarco), diede ulteriore prova di un preciso piano di rifondazione in chiave romana di
Atene con la costruzione dellArco, del Tempio di Zeus e la ripresa della scaenae frons del teatro di Dioniso nei quali è di
volta in volta egli è assimilato a Teseo, il fondatore di Atene, a Zeus, padre degli
dèi, e a suo fratello Dioniso. Tutto questo fa parte di una precisa propaganda imperiale
tendente a rappresentare Adriano come il fondatore nella nuova Atene Romana[2].
Naturalmente, linteresse degli
imperatori romani per la Grecia non si arresta solo allAttica. LArgolide,
infatti, è al centro del contributo di R. Forsell [,The Argolid Countrysaide in the Roman
Period, 6469), che, attraverso lo studio degli interventi attuati in loco e dei rilevamenti effettuati, ricostruisce
le tappe delle visite sia di Nerone che di Adriano in questa regione della Grecia. Al
contrario, in un intervento dal titolo ,Cultural Interchange? The Case of Honorary Satues
in Greece [5563] J. M. Højte si sofferma su un altro aspetto tipico della
produzione scultorea di età imperiale, denunziato apertamente da Dione Crisostomo nella
sua Rodiaca (or. 31) e nella Corinthiaca di Favorino[3]: le città greche ebbero labitudine di
ringraziare gli stranieri distintisi per qualche merito o con lerezione di statue o
con lonore della prossenia oppure con titoli onorifici e la fondazione nuovi di
culti. Tuttavia, tale lusanza, ormai invalsa, comportava anche quella di lasciare
intatte le iscrizioni in Greco, modificando solo i nomi dei destinatari, i titoli e le
cariche pubbliche, conformemente alla pratica romana. Lattenzione del contributo è
rivolta, in particolare, alle statue offerte ai Romani nella provincia achea: lo studio
delle iscrizioni dedicatorie (in particolare quelle rinvenute nel santuario di Amphiaraios
ad Oropo) lascia concludere che circa 300 risalgono ai primi due secoli dellimpero.
Gli aspetti sociolinguistici di tre gruppi di
iscrizioni provenienti dallintera città Siracusa (in particolare dalla catacomba di
Vigna Cassia e dallarea di Villa Lanolina), che vanno dal primo periodo imperiale
fino al sesto secolo, rifletterebbero per K. Korhonen [,Three Cases of Greek/Latin
Imbalance in Roman Syracuse, 7080] la crescente romanizzazione della città.
Se, infatti, inizialmente vi prevale il greco, col passar del tempo gli epitaffi vengono
scritti in latino (ma la scelta delluna o dellaltra lingua dipende anche dal
gruppo sociale del dedicatario).
Un curioso aspetto dellinfluenza romana
sulla cultura greca è, infine, quello che colpisce il ruolo della donna nella società
ellenica: dallo studio della disposizione e della struttura della casa in età imperiale
L. Nevett [,Continuity and Change in Greek Households Under Roman Rule: The Role of Women
in the Domestic Context, 8197] chiarisce come effettivamente nel corso dei
secoli si assista ad un cambiamento di costume più aperto rispetto a quello tenuto dalla
donna greca dellepoca classica ed ellenistica.
Ma, occorre dire che lincontro
socioculturale tra Greci e Romani è più che mai evidente ed operante in ambito
letterario. È un esempio lanalisi a livello micro- e macrostrutturale del primo
coro della Fedra di Seneca che permette a L.
Senzasono [,Some Influences of Greek Poetry on the first Choral Song of Senecas Phaedra (274357), 101110] di
rintracciare i numerosi modelli greci (Esiodo, Euripide, Archiloco, Omero, Apollonio
Rodio) presenti nel testo dellautore latino, consentendogli di affermare che Seneca
ha consapevolmente utilizzato i testi dei suoi predecessori per comporre un poema che si
presenta come uno specimen di arte letteraria
decorosa piuttosto che di poesia genuina, un tentativo di sintesi lirica perseguito con
arte cerebrale e meticolosa. Su tale strada, lunico aspetto positivo della ripresa
senecana consisterebbe nella unità tematica e stilistica del collage delle diverse fonti.
Non è possibile in questa sede entrare nel
merito della discussione; tuttavia, mi sembra evidente che il giudizio di Senzasono
risulti estremamente restrittivo. Certo, comè vero che il teatro di Seneca per
ammissione quasi unanime degli studiosi è apparso monocorde, indulgente agli effetti
retorici, espressione della volontà di emulazione del suo autore verso i modelli greci,
un teatro che si caratterizza, insomma, per lo sviluppo piuttosto lirico e sapienziale del
coro, il quale, avendo perso la funzione di partecipare allazione del dramma, sembra
assumere le caratteristiche di un intrattenimento musicale o <G>e)mbo/lima</G>
(tanto criticato da Aristotele nella Poetica),
ugualmente non si può ridurre il dettato poetico del tragediografo romano ad un banale ed
ovvio bricolage di fonti. Una visione più
storicistica del problema, che interpreti questo tipo di tragedia come figlia del
proprio tempo, conforme, dunque, ai giusti della propria epoca, le renderebbe piena
giustizia.
Ben tre contributi sono, poi, dedicati a
Plutarco, che, comera immaginabile, assume un ruolo di primo piano in ricerche di
ambito similare: mi riferisco ai lavori di Ph. Stadter [,Plutarchs Lives and Their Roman Readers, 123135],
di F. B. Titchener (,Plutarch and Roman(ized) Athens, 136141] e di V.
Castellani [,Plutarchs Roman Women, 142155]. Il contributo
più interessante è senzaltro quello di Stadter, il quale cerca di rispondere alle
seguenti domande: qual era inizialmente il pubblico delle Vite Parallele di Plutarco? Come Plutarco sperava
di influenzarlo? Lanalisi di alcuni passi tratti dalla vita di Tiberio Gracco e
limmediata constatazione che Plutarco scrive la sua opera per Sosio Senecione
denuncerebbe per lo studioso la volontà plutarchea di rivolgersi non già a semplici
cultori di greco, bensì ad un élite sociale ben precisa, in vista e inserita nella vita
amministrativa della capitale. La posizione di Plutarco è quella di un
filosofo-consigliere delluomo di stato: lo stesso Tiberio Gracco funge da modello di
virtù e valori per limperatore Traiano.
La domanda che ispira la breve nota di F. B.
Titchener è, invece, la seguente: Cosa pensa Plutarco della città di Roma? Perché, pur
avendo successo a Roma, egli decise di restare nella piccola città greca di Cheronea? Le
risposte possono essere di vario ordine: anzitutto va detto che se Plutarco non esprime
personali giudizi su Roma per evitare fastidi, la scelta di restare nella sua città può
nascondere il suo reale sentimento di disistima nei confronti della capitale
dellImpero. Vi è, però, anche losservazione che Plutarco non nutriva in
generale una grande simpatia verso le metropoli, dove, per levidente tensione del
clima politico, poteva essere messa in pericolo la vita di un intellettuale in vista.
Inoltre, la scarsa conoscenza del Latino sarebbe stato da ostacolo per la consultazione
delle fonti, dunque avrebbe rallentato le sue ricerche. Lasciando da parte le prime
ipotesi (più plausibili, ma non convincenti), mi sembra che lipotesi della scarsa
conoscenza del latino da parte di Plutarco sia tuttaltro che fondata, oltre che per
nulla basata su un esame esteso e scrupoloso delle sue opere[4]. Le risposte date dallautore sono, a mio
avviso, non propriamente condivisibili.
Più specifico è il tema trattato da
Castellani nel suo contributo sulle modalità di presentazione delle donne romane nelle Vite di Plutarco. Partendo dallassunto che il
fine dello scrittore nella composizione della sua opera era di tipo moraleggiante e
didattico piuttosto che sociologico -
Plutarco cioè non vuole scrivere una storia del sociale, bensì fornire al suo ampio
pubblico storie che servano da ammonimento , Castellani si sforza di dimostrare,
alla luce della comune tendenza critica che vuole omogeneizzare le donne greche e romane
in nome di un continuum culturale che
innegabilmente abbraccia lintero Mediterraneo[5], che
un continuum non significa necessariamente
uniformità e, di conseguenza, esistono importanti differenze, dal punto di vista sia
della posizione legale che dello statuto morale, tra la donna romana e quella greca.
Invece, secondo Castellani, la matrona romana
(lo studioso elenca 11 vite in cui la materfamilias
svolge un ruolo significativo) è presentata da Plutarco con caratteristiche tipiche delle
donne greche o, addirittura, frutto delle suggestioni provenienti dalla letteratura greca.
In tal senso, attraverso lanalisi del leggendario episodio delle Sabine tratto dalla
vita di Romolo, è possibile concludere che Plutarco de-romanizzi volutamente le donne di
Roma, rendendole più vicine al modello di morale che egli intendeva additare al suo
pubblico.
Assieme a Plutarco, laltra grande figura
di intellettuale greco nellimpero romano è rappresentata da Dione Crisostomo, cui
è dedicato il lavoro di R. A. Kugler [,The Ox, the Crow, and the Orator: Image, Allegory,
and Motive in Dio Chrysostoms Second Tarsian
Oration (Oration 34), 156171],
nel quale, attraverso lanalisi della favola sul corvo e il cavaliere (§§ 56)
e di quella dei due lottatori (§§ 1213) del secondo discorso agli abitanti di
Tarso (or. 34), viene messo in luce come il retore di Prusa con esso abbia voluto
presentarsi dinanzi a quel popolo in veste di messaggero e mediatore del Potere imperiale:
linvito che Dione pone ai Tarsesi è quello di guardarsi dalla minaccia
rappresentata dalla forza di Roma.
Che Adriano non fu solo un finanziatore di
opere pubbliche ed un organizzatore di cultura appassionato del mondo greco, ma lui stesso
poeta e scrittore in lingua greca è noto a tutti. Ora, il compito di delinearne la
poetica non poteva che essere affidato a mani più esperte di quelle di E. Bowie [,Hadrian
and Greek Poetry, 172197], di cui si conoscono i meriti e i risultati in
questo campo. Nel suo contributo vengono analizzati tutti gli epigrammi ed i versi
attribuiti ad Adriano cui segue una discussione sulle presunte o reali attribuzioni[6]. Bowie indaga, inoltre, i gusti poetici di
Adriano in rapporto alla poesia sia latina che greca contemporanee, concludendo, ad
esempio, a favore della predilezione di Antimaco su Omero, ad imitazione del quale scrisse
un componimento polimetrico (Catachannae). Lo
studio prende in esame anche alcune poesie composte da due amici di Adriano: L. Iulius
Vestinus e il proconsole Arriano, il secondo dei quali in particolare è identificato da
Bowie con lo storico omonimo.
Non è possibile nel breve spazio di una
recensione approfondire il contenuto dei restanti contributi. Mi limito, pertanto, a
segnalarli. Se A. M. Eriksen [,Redefining Virtus.
The Settings of Virtue in the Works of Velleius Paterculus and Lucan, 111122]
esamina il vocabolario della virtù nelle opere di Velleio Patercolo e di Lucano per
suggerire di giudicare la letteratura romana post-augustea non solo in base agli standards letterari consacrati, ma di apprezzarla
tenendo presente il chiaro ed evidente sviluppo concettuale e sociale di Roma antica, alla
caratterizzazione che Elio Aristide dà di sé nei suoi discorsi è dedicato
larticolo di J.-J. Flinterman [,The Self-Portrait of an Antonine Orator: Aristides, or. 2.429ff., 198211], mentre la scarna
nota di A. Xenophontov [,Polyaenus: A Greek Writer as a Job-seeker in the Roman
World, 212215] ci presenta Polieno come uno scrittore fuori delle vie
ufficiali, in cerca di impiego. Per parte sua, P. Desideri [,The Meaning of
Greek Historiography of the Roman Imperial Age, 216224] pone il problema se il
gruppo di storici di questo periodo (Plutarco, Appiano, Arriano, Dione Cassio, Erodiano)
sia espressione di una medesima mentalità greca e della stessa ideologia politica
propagandata sotto vari aspetti, ma tutti complementari, nelle rispettive opere.
Una differenza di trattamento nella novella di
Psiche tra autori latini e greci vede S. Lalanne [,Hellenism and Romanization: A
comparison between the Greek novels and the tale of Psyche in Apuleius Metamorphoses, 225232], la quale
ritiene che mentre Apuleio si ispiri alla narrativa milesia, i novellieri greci, da
Caritone ad Eliodoro, abbiano trattato sempre diversamente il soggetto, tendendo allo
spettacolare e al macabro. Per finire, J. Geiger [,Language, Culture and Identity in
Ancient Palestine, 233246] fornisce uno sguardo complessivo
sullidentità etnica, religiosa e linguistica della Palestina.
Il volume, che come inizialmente annunciavo si
distingue per lalta cura formale, è corredato di una serie di indici ed apparati
(nellordine: indice delle abbreviazioni, indice delle edizioni utilizzate,
bibliografia, nota sugli autori, indice degli argomenti, dei nomi e dei luoghi) che ne
agevolano ulteriormente la consultazione.
In conclusione, mi sembra di poter affermare
che la raccolta di saggi qui presentata contribuisca, sotto vari aspetti, alla
ricostruzione dellidentità culturale dei Greci e dei Romani nei primi secoli
dellimpero. In particolare, va apprezzata la scelta di indagare il rapporto e
linterazione tra mondo greco e romano non solo dal punto di vista
filosofico-letterario, quanto anche da quello artistico e archeologico. Tuttavia, se gli
interventi di E. Bowie, P. Desideri, K. Korhonen e Ph. A. Stadter rappresentano un sicuro
avanzamento negli studi e uno stimolo per ulteriori ricerche, il valore dei restanti
contributi non è sempre omogeneo ma ciò è inevitabile in una raccolta del genere
né del tutto convincente (mi riferisco in particolare ai capitoli di Senzasono e
di Titchener). Mi pare, inoltre, che il saggio di Geiger sullidentità culturale
della Palestina non rientri a pieno nel tema portante del libro, che si prefigge di
esplorare il difficile terreno dellinterazione tra Greci e Romani, non già quello
di altre popolazioni antiche (non solo la Palestina!) che sottolineano la loro identità
delle origini.
Eugenio Amato, Fribourg (Suisse)
[1] Ricordo, a titolo di esempio, la raccolta di saggi curata da Simon Goldhill: Being Greek under Rome: Cultural Identity, the Second Sophistic, and the Development of Empire (Cambridge 2001), il libro di Tim Whitmarsh: Greek Literature and the Roman Empire. The Politics of Imitation (Oxford 2001) e il terzo tomo del secondo volume de I Greci. Storia Cultura Arte Società (Torino 1998) diretto da Salvatore Settis.
[2] È da lamentare il fatto che non vi sia
neppure una menzione alle ricerche fondamentali di Simone Follet: Athènes au Ie
et au IIe siècle. Etudes
chronologiques et prosopographiques (Paris 1976).
[3] I due testi sono del tutto ignorati dallautore.
[4] Sulla questione del latino di Plutarco esiste una nutrita bibliografia del tutto taciuta da Titchener non dà conto alla
ricerca scientifica. In particolare, per lo status del problema e per vedute decisamente opposte, cf. A. De Rosalia: Il latino di Plutarco, in G. DIppolito - I. Gallo (edd.): Strutture formali dei «Moralia» di Plutarco (Napoli 1991), 445459.
[5] Vedi, ad esempio, gli studi pionieristici di P.A. Stadter, Plutarchs Historical Methods: An Analysis of the Mulierum Virtutes (Cambridge, Mass. 1965) e di F. Le Corsu, Plutarque et les femmes dans les Vies Parallèles (Paris 1981).
[6] Notevole il dubbio sulla paternità della breve poesia animula vagula blandula, anche se non vi è neppure un accenno
ad E. Androni Fontecedro: Animula vagula blandula: Adriano debitore di Plutarco. Aufidus 26, 1995, 727.