Ateneo: I Deipnosofisti. I dotti a banchetto. Prima traduzione italiana commentata su progetto di Luciano Canfora, introduzione di Christian Jacob. Voll. I-IV, Roma: Salerno Ed. 2001. CXXIV, 2050 p.,  16 inserti fotografici f.t. [voll. I-III]; 774 p.,  8 tavole f.t. [vol. IV]. Euro 750,-- ISBN 88-8402-355-6.

Che immagine avremmo della cultura greca a considerarla dal punto di vista del cavolo? Non si tratta certo di una battuta di spirito, bensì della domanda giustamente provocatoria che Christian Jacob, com’è noto uno dei massimi esperti dei sistemi di comunicazione della geografia antica, propone ai lettori nella sua introduzione („Ateneo, o il Dedalo delle parole“, XI-CXVI) alla prima versione italiana commentata dei Deipnosofisti di Ateneo in quattro volumi rilegati e raccolti in un elegante cofanetto, di cui i primi tre contengono la traduzione dei quindici libri dell’originale con i vari corredi esegetici, il quarto il testo greco.[1] Un’opera che, progettata da Luciano Canfora, dopo dodici anni dal suo primo annuncio, viene ottimamente a colmare un vuoto,  quanto mai avvertito, nel panorama italiano delle traduzioni di testi classici, dove la recente e crescente attenzione verso gli autori delle letteratura di età imperiale fa ben sperare in altri meritori progetti. Va, comunque, senz’altro segnalato che, per quanto riguarda Ateneo, il nuovo millennio nasce sotto una stella più che mai positiva, visto il recente interesse da parte di studiosi di varia provenienza che ha già dato luce ad un importantissimo e ricco volume frutto degli interventi letti e discussi in occasione di un Convegno organizzato ad Exeter nel 1997.[2]

Tra le varie definizioni che sono state date della civiltà greca (e romana) vi è anche quella significativa e sintomatica di Bankettkultur o anche di Trinkkultur. Il simposio era un momento fondamentale della vita sociale greca, in cui persone della stessa estrazione si riunivano in un determinato momento con lo scopo di scambiarsi idee ed opinioni riguardo a vari argomenti, ed un luogo di riflessione dove si cercava di comprendere meglio le pratiche sociali della propria civiltà, dove si sviluppava la memoria collettiva, poetica e visiva, in una parola l’identità culturale, accompagnando le discussioni con cibo e vino. In particolare, la dimensione comunitaria del pasto e il consumo comune del cibo producevano tra i commensali una sorta di identità, rendevano più vicine le persone che vi partecipavano e lo spazio comune a questi doveva essere tale da consentire a ciascuno di vedere e sentire tutti gli altri in ugual modo. Il pasto in comune era uno dei mezzi più usati dalla città per esprimere l’idea stessa di comunità civica; anzi, prendere parte ad un banchetto comune spesso sottintendeva il possedere la cittadinanza. E testi, quali il Simposio di Platone, di cui Ateneo riconosce senza difficoltà la paternità ideale, e quello di Senofonte, le Questioni conviviali e il Banchetto dei sette sapienti di Plutarco, il Simposio o i Lapiti di Luciano, per menzionare solo le opere più note, la dicono lunga riguardo a tale ,rito’, tanto da inaugurare un vero e proprio genere letterario.[3] In questo variegato ed articolato mondo letterario, il testo di Ateneo si pone certamente come uno dei più interessanti ed una delle creazioni della letteratura mondiale le cui molteplici implicazioni possono essere svelate solo dagli sguardi incrociati del filologo, del filosofo, dello storico, dell’antropologo. Se, infatti, la struttura esterna dell’opera di Ateneo si presenta come il racconto, fatto dall’autore all’amico Timocrate, di una serie di conversazioni tenute dagli appartenenti ad un circolo di dotti, nella casa del ricco patrono romano Larense, moderate, come tradizione vuole, da un re del simposio, Ulpiano, eletto o sorteggiato per l’occasione, aventi come sfondo un’iperbolica biblioteca di testi greci antichi, e alle quali lo scrittore stesso ha partecipato, è innegabile che il reale intento di Ateneo è quello di „portare a compimento la ricostruzione antropologica di una pratica sociale costitutiva del mondo greco attraverso la ricostruzione di un universo di gesti, di parole, di oggetti, di piatti, di sapori“ [XV] che serva a recuperare, sotto gli occhi di una società modificata e ampiamente ristrutturata qual è quella del II sec. d.C., norme, pratiche, categorie etiche, che contraddistinguevano, per i greci di un tempo, il mangiare e il bere. Il che ha inevitabilmente implicazione con vari altri problemi esegetici ed interpretativi che si aprono di continuo nel testo dei Dotti al banchetto.

Le pagine scritte da Jacob superano i limiti di una normale introduzione per divenire vera e propria monografia, assolutamente originale e di primaria importanza: la prima che privilegi una cartografia di temi e di problemi presenti nel testo ed abbia come filo conduttore lo studio ,etnografico‘ dell’ambiente culturale rappresentato da Ateneo, delle sue pratiche e del suo progetto culturale. Non viene, dunque, data una chiave d’interpretazione univoca, bensì una serie di accessi interpretativi che servano a muoversi secondo vari itinerari all’interno dei Deipnosofisti. Sono questi gli aspetti più innovativi che mi sforzerò di chiarire.[4]

La risposta che Jacob dà alla domanda posta in apertura della presente recensione è la seguente: se noi provassimo ad interrogare il testo di Ateneo, scopriremmo che presso gli Egiziani, prima di ogni pasto, vengono serviti cavoli lessi per ripararsi da un eventuale ubriacatura e che tale pratica è  più o meno la stessa seguita da altre popolazioni, che aggiungono, nei preparati alimentari, semi di cavolo o addirittura lasciano crescere cavoli nei vigneti per avere un vino meno vigoroso. Tutto questo viene puntualmente accompagnato e, per così dire, confermato dalle citazioni di vari poeti (Alessi, Eubulo, Apollodoro Caristio, Anassandride), ma anche filosofi e scienziati (Teofrasto), dai quali si apprende ulteriormente che il cavolo può essere un buon rimedio contro le preoccupazioni, oppure che esistono tre tipi di cavolo, originari di tre diverse zone della terra; che esso, stando a Nicandro, veniva chiamato anche ,profeta‘ per il suo carattere sacro e che era offerto alle partorienti ateniesi come antidoto in particolari tipi di alimentazione. È evidente che la singolarità dell’opera di Ateneo risiede nella sua „inventiva inesauribile“, nella „capacità di svolgere fili tematici a partire da soggetti all’apparenza triviali“ [XII], il tutto attraverso somme di citazioni e di nozioni che, muovendosi all’interno dei testi greci antichi, permette ai suoi convitati di costruire la voce di un’ipotetica enciclopedia del sapere greco. Ecco, allora, che l’opera di Ateneo, per la sua arte di tessere legami e fitte ragnatele, viene presentata come una pagina web. Il programma World Wide Web è  una soluzione che consente di muoversi rapidamente nel mondo di Internet, limitandosi a leggere il testo che compare e a selezionare oggetti o voci menzionati nel testo stesso, di cui si vuole sapere di più. Come nei testi W3 le parole sottolineate, o comunque marcate, operano come puntatori, ossia consentono all’infinito e a seconda dei soggetti di partenza di recuperare documenti nei quali l'argomento che interessa è approfondito, così il metodo di Ateneo dovrebbe permettere al lettore di muoversi all’interno del testo, un vero e proprio ipertesto, in cui un certo numero di connessioni, di citazioni, sono guida ad altri testi, ad altri autori, fisicamente indipendenti, collegati assieme da un’unica parola-chiave. Ed è importante sottolineare che, come una ricerca web rappresenta solo una possibilità tra le numerose altre a disposizione dell’utente per lo stesso argomento, eventualmente altri, così l’ipertesto dei Deipnosofisti non è che una delle tante configurazioni e degli innumerevoli itinerari a disposizione di Ateneo per un soggetto piuttosto che per un altro (in effetti, che cosa verrebbe fuori, si domanda Jacob, dal metodo di Ateneo se lo si applicasse a soggetti quali l’arte, la città, gli dei, gli animali, ecc.?). Su tale strada, l’opera che studiamo potrebbe anche interpretarsi come il resoconto di un gioco di società. „Ogni giocatore si vede proporre … di localizzare un punto preciso della biblioteca – un autore, un testo, ad esempio sotto forma di una domanda di Ulpiano, a sua volta in rapporto, quest’ultima, con uno dei piatti o con una delle peripezie del banchetto, o addirittura con una parola pronunciata dal giocatore precedente. Il giocatore deve allora individuare il suo punto di partenza … e, a partire da esso, connettere tra loro il più alto numero possibile di altri luoghi testuali“ [CII].  Resta, però, fondamentale l’impegno da parte dei giocatori di regolare le finestre citazionali, che di volta in volta si apriranno, in base ad un principio di pertinenza e, secondariamente, scegliere percorsi interni alla biblioteca della casa di Larense, il che vuol dire rimaner fermi al detto, al dicibile, al testimoniato. Come avviene per la maggior parte dei testi di questo periodo, ciò che conta è la garanzia della fonte, il riferimento della citazione, che ha validità di autenticazione. Penso, ad esempio, alla Descriptio orbis di Dionisio il Periegeta, ove più che la diretta esperienza nel viaggio (l’e)ce/tasij) ha valore assoluto il viaggio tra i libri, uniche Muse che garantiscano la scientificità delle coordinate e delle informazioni geografiche più rilevanti per la configurazione e la disposizione della Terra[5]. Questa prospettiva apre, a sua volta, un’ulteriore interpretazione del testo di Ateneo. Nei Deipnosofisti si assiste, per così dire, ad uno sguardo aereo sull’intero mondo abitato da un particolare punto di vista: quello della biblioteca, che, senza mai spostarsi dal circolo di Larense, vero e proprio centro dell’ecumene, permette ai banchettanti di viaggiare attraverso il mondo tra pratiche, usi e costumi di numerose popolazioni. Ecco, dunque, che l’opera si presta ottimamente ad un’interpretazione che ne sottolinea i caratteri tipici di un’epitome della terra abitata o, se si vuole, di una periegesi della biblioteca. Questo metodo, accostabile per le finalità a quello adottato da Pausania e dallo stesso Dionisio Alessandrino, finisce col far partecipare Ateneo „al progetto di raccolta, di salvaguardia, di condensazione del sapere e della memoria caratteristica della Seconda Sofistica“ [CVII]. Del resto, il richiamo di parole, versi ed oggetti lascia libero volo all’immaginazione dei deipnosofisti che un prosciutto dalle particolari qualità può portare in Gallia, in Licia e in Spagna (XIV 657e), una prugna a Rodi e in Sicilia (II 49f), un cavolo ad Eretria, Cuma, Cnido, Efeso, Alessandria (IX 369 e-f). Tuttavia, l’analogia con una períodos tês bibliothékes abbisogna di alcuni accomodamenti, va discussa e non assunta. A differenza delle periegesi, che circoscrivono e dominano uno spazio da un preciso punto di vista, l’opera di Ateneo cresce e si dispone su piani diversi, che vanno dal particolare al generale, dal locale al globale. Ottima, in tal senso, la metafora proposta da Jacob dei Deipnosofisti come di una biblioteca strutturata su più livelli, in cui, per raggiungere il piano successivo (che significa anche variare il punto di vista sullo spazio centrale) ci si serve di una galleria elicoidale (una materializzazione moderna potrebbe essere l’architettura del ,Salomon R. Guggenheim Museum‘ di New York), „con la sola differenza che questa variazione non corrisponde a un principio di composizione del testo tale da condurre, nella sua sequenzialità, dal basso in alto, ma a una modalità di lettura del testo, ove il senso si costruisce, si struttura e si gerarchizza durante la traversata dell’opera“ [CIX]. I livelli individuabili sono quello di base (o zero), in cui si trova la biblioteca dei testi antichi, cui segue immediatamente il livello della scienza bibliografia ellenistica, che permette una strutturazione ed una ripartizione interna della biblioteca, organizzando, classificando, identificando il materiale di base. Il secondo livello è occupato dai testi della cosiddetta metaletteratura, prodotti per lo più in epoca ellenistica e imperiale (commenti, lessici, opere erudite, ecc.) che hanno il compito di vagliare la letteratura del passato, di ingrandire, come una gigantesca lente, e identificare i dettagli, le curiosità nascoste tra le pieghe del testo, infine di filtrare, attraverso i filtri ottici rappresentati dai saperi tecnici a disposizione di Ateneo (filologia, lessicografia, grammatica), il materiale in gioco, per modificarne l’inquadratura o la focalizzazione, così da permettere di evidenziare dimensioni della realtà studiata altrimenti invisibili all’occhio nudo. L’opera di Ateneo, però, così ridotta sarebbe mortificata e in parte ridimensionata: vi sono altri due livelli da considerare. Gli itinerari bibliografici e l’osservazione tecnica delle parole e dei testi lungi dall’essere degli impianti fini a se stessi vanno osservati e scrutati con l’occhio di chi appartiene ormai ad un’epoca, che non è più quella classica o ellenistica, ma è espressione di una mutata mentalità, radicata com’è nel mondo romano e nella latinità del II sec. dell’era comune. Questa osservazione è fondamentale ai fini della corretta comprensione del messaggio di Ateneo: „osservare la biblioteca da questo livello a strapiombo, significa prendere coscienza di una distanza a un tempo temporale e spaziale, di uno scarto sensibile, che inscrive la totalità del progetto di Ateneo nell’ambito dell’archivio, della tutela e della riconquista, in breve: nell’ambito dell’archeologia culturale e linguistica“ [CXI]. Senza dire che tale punto di osservazione rappresenta un ottimo termine di confronto per l’evoluzione ulteriore della cultura greca. È, infine, su questa prospettiva che si apre il quarto livello, il più alto della galleria elicoidale, il livello antropologico, dal quale è possibile per una cultura riflettere su se stessa e capire le origini della decadenza di un popolo e di una civiltà. Se il simposio e la pratica del cibo, oltre ad essere simposio e cibo, sono anche, come direbbe qualcuno, potenti media, un mezzo di comunicazione, attraverso cui l’attore sociale esprime se stesso, comunicando agli altri il proprio status, il ruolo, la condizione, e in ultima analisi,  la propria visione del mondo[6], ne scaturisce che il banchetto diviene un buon „oggetto antropologico“ per cogliere non solo gli aspetti macroscopici di un’intera società che cambia, bensì le minime nuances dei colori dell’inquietudine che la assale; lo specchio, in pratica, di un’intera generazione (con la sua cultura e la sua memoria storica) che lascia riflettere anche noi contemporanei. È, forse, questo un aspetto dinamico dei Deipnosofisti che andrebbe ulteriormente indagato e che, ovviamente, Jacob suggerisce, stimolando la curiosità del lettore.

„Prendi una scodella di fagioli, un pezzo di pane, una brocca di vino e, per insaporire il tutto, tre cipollotti“: è il povero pasto di un contadino, consumato sull’angolo del tavolo. Ma siamo sicuri che si tratti di un pasto così povero come appare a noi? Si tratta, invece, della raffigurazione di un quadro dipinto alla fine del XVI secolo da Annibale Carracci (1560-1609), un’epoca di carestie e di epidemie: per un contadino di quel periodo, forse, un pasto del genere era tutt’altro che povero. Da Omero a Boccaccio, da Leonardo a Kant, da Tolstoj a Gadda, da Neruda a Calvino: attraverso le testimonianze della letteratura antica, medioevale, rinascimentale, barocca sino ai più bei brani letterari italiani ed europei contemporanei l’evolversi delle forme storiche della pratica simposiale, degli usi e dei costumi degli uomini a tavola, dei piaceri e dei dispiaceri, degli incontri e degli scontri, hanno fatto del convivio un’immagine speculare della società. Dunque, dietro ai sapori, agli odori, ai cibi menzionati da Ateneo si nascondono tantissimi significati; dietro al gusto di sedere a tavola, ma anche di stare dietro ai fornelli, esiste una trama fitta di simboli e linguaggi che costituiscono il variegato panorama di una intera società (immagini riproposte ai nostri giorni anche sul grande schermo: si pensi a La grande abbuffata di Marco Ferreri, a Il pranzo di Babette di Gabriel Axel, a Chocolat di Lasse Hallström). Ovviamente, anche la coreografia dei banchetti, i piatti e le bevande che vi vengono serviti non sono sempre gli stessi: variano con le epoche e i luoghi. I Deipnosofisti di Ateneo, dunque, rappresentano a mio giudizio una storia ricca di sorprese, di civiltà alimentari che cambiano, un mondo di gusti, sapori e profumi all’interno di una società, quella greca costretta a convivere con il mondo e le pratiche di Roma, ma alla ricerca di una propria identità culturale[7]; un mondo che possiede naturalmente la sua storia, i suoi usi e costumi, i suoi artisti, le sue leggende, le tradizioni, e perché no, i suoi eroi, i suoi scienziati, i filosofi, i musicisti ed i poeti. Apparentemente, il simposio, come insieme di pratiche alimentari, codificate oralmente e per iscritto, appare un’attività ovvia, banale, se vogliamo, a tal punto che ci si aspetterebbe che il rapporto con essa da parte degli attori sociali sia pragmatico, empirico: invece, come i Deipnosofisti suggeriscono, la cucina esprime attraverso il cibo l’intersecarsi di diversi piani di analisi: ecologici, tecnologici, simbolici, sociali, semiotici. Io credo che la pratica del banchetto, quale ci è offerta da Ateneo, con tutte le sue portate, sia anche strumentale nel rafforzare l’identità del gruppo e, in una prospettiva più ampia, nel sottolineare le differenze tra quel gruppo, espressione di quella cultura, da altri strati sociali, separando e distinguendo il loro punto di vista da quello di altri.[8] L’alimentazione è uno dei display più importanti per delimitare barriere ideologiche, etniche, politiche, sociali, o al contrario uno dei mezzi più utilizzati per conoscere le culture “altre”, per mescolare le civiltà, per tentare la via dell’interculturalismo proprio perché il cibo e le pratiche alimentari ad esso legate sono un meccanismo rivelatore dell’identità etnica, culturale, sociale.[9] Per questo motivo, il simposio di Ateneo, oltre a rappresentare una tappa difficilmente trascurabile nella storia dell’alimentazione, è una voce importante nella costruzione dell’identità della società cui si rivolge.  Ma questa è un’altra storia.

In realtà, l’introduzione di Jacob rappresenta solo un’efficace ed ,appetitosa‘ entrée alla lettura del banchetto di Ateneo, al cui allestimento italiano hanno dato tutto il loro apporto di studiosi seri e competenti un nutrito gruppo di specialisti. Le responsabilità dell’opera, coordinata da Leo Citelli e Maria Luisa Gambato, vanno, infatti, così divise: a Rodolfo Cherubina spettano la traduzione e il commento ai libri 9 (1-31), 10, 11, al Citelli la traduzione e il commento ai libri 4 e 14, alla Gambato la traduzione e il commento ai libri 1, 12, 13, ad Emanuele Greselin il commento al libro 3, ad Antonia Marchiori la traduzione e il commento ai libri 2, 5, 7, 8, ad Andrea Rimedio la traduzione e il commento ai libri 6, 9 (32-80), 15, a Maria Fernanda Salvagno la traduzione del libro 3. Inoltre, sempre al Citelli va l’onere della revisione del testo greco di G. Kaibel (Lipsiae 1887-1890 [rist. Stuttgart 1962-1985]) e, in collaborazione con Giorgio Piras, quello della „Bibliografia“ [1815-1884], suddivisa in „Edizioni e traduzioni“ [1815-1818], „Studi e sussidi“ [1818-1883], „Sigle“ [1883-1884], mentre sono di Gianfranco Adornato la ricerca iconografica, le didascalie e le „Note alle tavole fuori testo dei volumi I-III“ [CXVII-CXIX], alle quali si affiancano quelle relative alle tavole del vol. IV ad opera di Margherita Losacco [CXX-CXXI]. Infine, vanno elencati i responsabili dei preziosi ed utilissimi repertori e indici che chiudono il terzo volume dell’opera: Giuseppe Russo, „Repertorio degli autori e dei luoghi citati“ [1887-1981]; M. L. Gambato e A. Rimedio, „Repertorio dei ‘Dotti a banchetto’ “ [1885-1886] e „Indice dei nomi propri“ [1982- 2020]; Roberta Capelli, „Indice delle cose notevoli“ [2021-2048].

Tenterò, ora, di dare conto della qualità del libro nei suoi vari aspetti passando in rassegna vari punti dell’opera, tra questi quelli che rientrano nei miei personali interesse di ricerca. Si tratta, naturalmente, solo di un saggio, data la sconfinata vastità di materiale e il numero di competenze che richiederebbe un’analisi dettagliata dell’opera; ciò che andrebbe ben oltre l’estensione di una recensione. Comincio subito dalla versione italiana, la prima in assoluto, come dicevo, e che, pertanto, deve essere salutata con immensa gioia e profonda ammirazione, benché vada guardata piuttosto come un punto di partenza che non come il punto d’arrivo. Del resto, stando alle parole con cui Luciano Canfora firma la sua „Premessa“ [IX-X], poiché il lavoro del tradurre è di per sé provvisorio, è certo che il carattere stabilmente perfettibile di ogni traduzione non può non toccare anche questa ‘prima’ per la quale la ‘pattuglia’ di traduttori arruolata non poteva vantare nessun testo italiano antecedente, se non per qualche rara e mirata eccezione editoriale.[10] Naturalmente, se la mole dell’opera di Ateneo non consentiva forse in uno spazio di tempo relativamente breve (dalla progettazione dell’opera alla pubblicazione sono trascorsi nel frattempo dodici anni) di affidare il compito della traduzione ad un unico specialista, è pur vero che dividere la responsabilità della versione tra diversi specialisti può comportare, talora, delle disomogeneità di stile, di registro e di resa.[11] Disomogeneità che può inoltre manifestarsi quando a tradurre un testo criticamente ritoccato non è lo stesso autore della revisione. Si tratta, naturalmente, di indicazioni generali che non vogliono assolutamente colpire le scelte editoriali dell’Ateneo italiano, la cui traduzione si presenta corretta, piacevole, precisa, ma forse all’occorrenza troppo letterale; di sicuro essa non si lascia sempre leggere come se si trattasse dell’originale.[12] In diversi punti, poi, è possibile avanzare delle proposte diverse. Soffermiamoci sul proemio, la sezione che in genere riceve cure particolari da parte di un traduttore, che la Gambato rende così:

Ateneo è il padre di questo libro, destinatario della sua opera è Timocrate, e Dotto a banchetto ne è il titolo. Il soggetto dell’opera è il seguente: il romano Larense, uomo di condizione economica e sociale splendida, elegge a commensali i massimi esperti in ogni disciplina tra quelli del suo tempo, e fra di loro non c’è n’è uno del quale l’autore non abbia riportato i bellissimi interventi nella conversazione. Ecco perché ha introdotto nell’opera pesci, con i relativi modi d’impiego e le spiegazioni dei nomi; molteplici varietà d’ortaggi e di animali d’ogni specie; autori di storia, poeti e dotti in ogni campo, strumenti musicali e innumerevoli tipi di scherzi, e ha incluso nell’esposizione differenze tra le coppe, ricchezze di re, dimensioni di navi e altri argomenti, tanto numerosi che non mi sarebbe facile neppure richiamarli alla memoria: se ne andrebbe l’intera giornata ad esporre un genere dopo l’altro. E ancora, il disegno generale dell’opera vuole imitare la sontuosa abbondanza del banchetto, e l’articolazione del libro rispecchia il menu servito nel corso della trattazione. Tale dunque si presenta il sopraffino banchetto di discorsi messo in scena da Ateneo, che del disegno generale dell’opera è il mirabile ideatore, e che, superando se stesso, come gli oratori di Atene, con l’ardore della sua eloquenza s’innalza di grado in grado attraverso le parti che si succedono nel libro (1, 1 1a-c).

È da rimpiangere la decisione di non stampare a fronte della traduzione il testo greco del Kaibel, il che, oltre a risultare una impiccio per il cultore meno erudito, ne rende inevitabilmente disagevole il controllo, anche alla luce delle scelte testuali operate; anzi, da questo punto di vista, si desidererebbe una nota critica con il prospetto delle soluzioni adottate, come avviene anche in altre collane, nazionali ed estere. Ottima, in ogni caso, mi pare la scelta di rendere con Dotto a banchetto senza articolo determinativo, secondo la regola di Apollonio Discolo[13], l’originale Deipnosofisth/j, laddove, ad esempio, il Desrousseaux traduce le Deipnosophiste.[14] Meno felice, invece, la scelta di rendere con ,destinatario della sua opera è Timocrate‘ laddove il testo originale recita poiei=tai de\ to\n lo/gon pro\j Timokra/thn: i Deipnosofisti di Ateneo mettono in scena, come efficacemente scrive lo Jacob nell’introduzione [XXI], un dialogo-contenitore, quello tra Ateneo e Timocrate, per il quale lo scrittore riproduce il dialogo-contenuto dei partecipanti al banchetto, tenutosi nella casa di Larense, dedicatario dell’opera, e al quale Timocrate non ha partecipato. A mio avviso, la traduzione avrebbe richiesto, dunque, qualcosa del tipo: ,Ateneo è il padre di questo libro; vi dialoga con Timocrate; Dotto a banchetto ne è il titolo‘. Si veda, e. g., la versione spagnola di L. Rodruígez-Noriega Guillén[15] (,conversa con Timocrate‘) e nuovamente quella francese di Desrousseaux (,il s’y adresse à Tymocrate‘). In questa maniera ne risalterebbe anche la disposizione sintattica dell’intero periodo in greco, suddiviso in frase nominale, costruzione verbale, frase nominale. Non convince neppure la soluzione successiva: ,il soggetto dell’opera è il seguente: il romano Larense…‘, che – io credo - fa perdere in efficacia e precisione l’originale greco che suona così: u(po/keitai de\ t%= lo/g% Larh/nsioj (Rwmai=oj ... poiou/menoj; dunque, ,la materia dell’opera è fornita dal romano Larense, il quale…‘ (vedi la resa della traduttrice castigliana: ,proporciona la base del relato el romano Larense, … al convertir…‘). Perché, poi, rendere tu/xh con l’ingombrante ed imprecisa perifrasi ,condizione economica e sociale‘? In italiano il termine ,fortuna‘ è molto più incisivo ed ampio; d’altronde, l’espressione ,noto per la sua di fortuna (o anche splendente, raggiante)‘ (t$= tu/x$ perifanh/j), senza ulteriori specificazioni, è molto comune per indicare una sorte o una condizione propizia in tutto ciò che si fa e non in singoli casi. Assolutamente corretta è, invece, la traduzione dell’originale e)n oi(=j ou)k e)/sq ) ou(=tinoj tw=n kalli/stwn ou)k e)mnhmo/neusen, comunque preferibile a quella di chi intende il nesso relativo e)n oi(=j riferito all’opera di Ateneo e non, come deve essere, ai commensali invitati da Larense. Tuttavia, proporrei una soluzione diversa per il greco kai\ o(/lwj sofou\j: l’avverbio o(/lwj, anche per la sua posizione nella frase, vale per ,in una parola, insomma‘ (cf. Plat., Resp. 437b). Errata, in questo caso, appare, a mio giudizio, la versione di L. Rodruígez-Noriega Guillén (,filósofos‘), che oltre a far saltare l’avverbio, dà alla parola sofo/j un senso che le è del tutto estraneo nel passo. Vengo ora ad un’altra soluzione, corretta, ma discutibile dal punto di vista della precisione e dell’efficacia linguistica e stilistica dell’autore: ,E ancora, il disegno generale dell’opera vuole imitare la sontuosa abbondanza del banchetto, e l’articolazione del libro rispecchia il menu servito nel corso della trattazione‘, che rende il periodo originale kai/ e)stin h( tou= lo/gou oi)konomi/a mi/mhma th=j tou= dei/pnou polutelei/aj kai\ h( th=j bi/blou diaskeuh\ th=j e)n t%= lo/g% paraskeuh=j. È evidente, anzitutto, che la traduzione italiana non rende la correlazione del doppio kai/, né viene preservato il parallelismo dei due membri che formano l’intero periodo retti entrambi dall’espressione e)stin ... mi/mhma. Sarebbe stato auspicabile tradurre in entrambi i casi il verbo principale con ,rispecchia‘ (non trovo affatto convincente la resa ,vuole imitare‘) oppure scrivere qualcosa del tipo: ,Mentre il disegno generale dell’opera rispecchia (riflette, riproduce, imita, è imitazione) la sontuosa abbondanza (meglio, forse, la magnificenza) del banchetto, l’articolazione del libro il menu servito nel corso della trattazione‘. Per finire, un ultimo dubbio: il testo greco recita: toiou=ton o( qaumasto\j ou(=toj tou= lo/gou oi)kono/moj  )Aqh/naioj h(/diston logo/deipnon ei)shgei=tai. Molto più immediata, precisa ed elegante si presenta la traduzione di Desrousseaux (,Tel est l’agréable «repas de paroles» que présente Athénée, cet admirable ordonnateur de l’oeuvre‘), laddove la Gambato opta per una versione ancora una volta più artificiosa, complicando l’essenzialità della prosa greca.

Passiamo, quindi, al commento che supporta sistematicamente a piè di pagina l’interpretazione italiana del testo, chiarendone, al contempo, le numerosissime difficoltà esegetiche e gli svariati richiami storico-artistico-culturali. Anzitutto, andrà detto che ogni singolo libro è corredato da un conciso sommario. Quanto alle note, esse hanno lo scopo non solo di illustrare, in maniera divulgativa per un pubblico più vasto, i riferimenti ai personaggi ed agli eventi che costellano la ,biblioteca‘ del banchetto, ma anche di fornire un aggiornato status critico delle questioni più spinose, che rappresenta un buon tappeto di base per gli studiosi, chiarendo all’occorrenza le scelte testuali preferite (quasi sempre per difendere il testo dei manoscritti dagli interventi degli editori). Vorrei sottolineare l’accuratezza, la precisione dei riferimenti, l’ottima ed aggiornata selezione bibliografica, talora la ricchezza delle informazioni, il consistente numero delle fonti. Mi si consenta almeno un esempio tra i numerosi che potrei riportare. I capitoli 59-60 (590d-591f) del XIII libro, quasi per intero dedicato al mondo femminile, in particolare alle etère, sono consacrati a Frine, la più celebre delle cortigiane antiche. Il commento, opera nuovamente della Gambato, nella sua essenzialità si presenta esauriente, ben calibrato, in grado di soddisfare sia le esigenze dei cultori che quelle dello studioso.[16] E così vediamo sfilare nelle note riferimenti ad Iperide, Ermippo di Smirne, Plutarco, Diogene Laerzio, Pausania, Eliano, Esichio, Plinio il Vecchio, l’Antologia Palatina, Properzio, oltre che i nomi di vari studiosi (E. Cavallini, C. Cooper, A. Semenov, A. Adler, L. Deubner, G. Becatti, T. Talheim) a sorreggere quella che costituisce di sicuro la fonte principale su Frine. Vorrei, però, portare l’attenzione del lettore anche su altri passi dove si nota un po’ di stanchezza, se non proprio una curiosa (e grave) mancanza. Mi attesto ancora al XIII libro, il passo (577c) è quello relativo all’etèra Lamia, l’amante di Demetrio Poliorcete. Tra le fonti che dicono la cortigiana legata al re macedone, assieme alla Vita di Demetrio di Plutarco, andavano ricordati almeno Alciphr., ep. 2, 16 e Clem. Al., Protr. 54, 6, mentre alla discussa testimonianza favoriniana, riportata dalla Gambato nel commento e che vuole Lamia amante di Demetrio Falereo, va aggiunto l’unico altro testimonium (Diogen.-Choerob., Anecd. Gr. p. 1395 Bekker = Anecd. Gr. Oxon. II, p. 239 Cramer). Ciò che stupisce, però, è l’ignorare del tutto l’edizione di Favorino del Barigazzi (Firenze 1966), il quale dedica al frammento (ma anche ai rapporti tra Favorino e Ateneo) una nutrita serie di informazioni. A ciò si aggiunge la confusione nel rimandare all’edizione favoriniana del Mensching (e non Menschig come si legge per ben due volte), il cui unico titolo nella Bibliografia finale è rappresentato da un contributo sì del 1963 (Peripatetiker über Alexander, in: Historia 12, 274-282), ma non dall’importante edizione dei frammenti delle due opere erudite per i tipi di W. de Gruyter.[17] Passo, ora, al libro XI, curato da Rodolfo Cherubina, segnatamente ai passi relativi al prw=toj eu)reth/j del genere dialogico (505b-c) e all’Alcione pseudo-platonico (506c). Nel primo caso, in cui Ateneo, sulla scorta delle testimonianze solidali di Nicia di Nicea e di Sozione, asserisce che l’invenzione del dialogo non spetta a Platone, bensì ad Alessameno di Teo, il commentatore, purtroppo, dimentica del tutto l’edizione critica, ampiamente commentata, di Sozione e Nicia a cura di R. Giannattasio Andria (I frammenti delle «Successioni dei filosofi», Napoli 1989), la quale edita e discute non solo questo passo, ma numerosi altri:[18] è il caso appunto delle linee relative all’attribuzione all’accademico Leonzio dell’Alcione, cui la Giannattasio Andria dedica tutta una serie di sagaci osservazioni e una ricca bibliografia. Senza dire che la testimonianza di Diogene Laerzio (3, 62) riportata dallo studioso a conferma della falsa paternità platonica del dialogo, corrisponde a Favorin., fr. 45 Barigazzi (= 15 Mensching), del tutto dimenticato. Ancora, per riprendere il passo relativo ad Alessameno, il Cherubina chiarisce in nota che Ateneo avrebbe derivato l’intero capitolo dal libello antiplatonico (Contro l’adulatore) di Erodico Crateteo tramite la Omnigena historia di Favorino, dal quale in più avrebbe preso anche la notizia relativa a Nicia e Sozione (Favorin., fr. 47 Barigazzi = 17 Mensching), oltre che la successiva citazione aristotelica (fr. 15 Gigon = fr. 72b Rose) sulla natura dei mimi di Sofrone. Ebbene, anche qui è del tutto assente qualunque riferimento all’edizione del Barigazzi (ma pure al Mensching), il quale, tra le altre cose, si era espresso contro la dipendenza di Ateneo da Favorino, così come agli importanti studi di J. Gabrielsson che, sulla scia delle ricerche di F. Rudolph, indagò, a diverse riprese, il problema della Quellenforschung dell’opera dello scrittore di Naucrati, suscitando aspre polemiche o totali adesioni col considerare la Pantodaph\ i(stori/a dell’Arleatino una delle sue fonti principali (per non dire l’unica).

La Bibliografia, ampia, accurata e precisa, oltre a dimostrare la fittissima rete di riferimenti che il testo di Ateneo apre per il lettore, illumina l’impegno e la passione del gruppo di studiosi che da anni stava lavorando a questa importante opera. I titoli sono, naturalmente, quelli adoperati nel corso del commento; ciò spiega l’assenza di alcuni libri importanti, come quelli ora menzionati. Si sente, tuttavia, l’assenza di un elenco delle numerose edizioni di opere e frammenti degli autori antichi solo in minima parte rappresentati nelle „Sigle“ di p. 1883-1884, per la maggior parte, invece, segnalate nella sezione „Studi e sussidi“ della „Bibliografia“ ovvero alla fine delle singole voci sugli autori contemplati nell’index locorum, ma non tutte.

La difficoltà di corredare opportunamente di un commento iconografico e nel rispetto dell’epoca in cui è stato prodotto un testo dalle innumerevoli implicazioni come i Deipnosofisti di Ateneo è ben chiara a Gianfranco Adornato, il quale, nella scelta delle tavole che inframmezzano questa traduzione italiana, propende per ben 16 inserti utili a fornirne una ,lettura parallela‘ per immagini. Si tratta di inserti dal carattere generale che sottolineano attraverso la cultura materiale (oggetti da cucina, vasi, lavori e gesti quotidiani, mestieri, vino, musica, gioielli, ecc.) aspetti peculiari della civiltà classica. La cura nella riproduzione delle singole tavole è di rara eleganza e nitidezza. Ciascun inserto è preceduto, inoltre, da una breve panoramica sul genere che accompagna lo ,spettatore‘ nella collocazione del singolo manufatto. Mi piace segnalare all’interno dell’inserto XIV (dedicato alla privata luxuria) la riproduzione di un mediolus d’argento del I sec. d.C., proveniente dalla Villa della Pisanella di Boscoreale e attualmente conservato al Museo del Louvre, su cui è ritratto un gruppo di scheletri di celebri pensatori (Sofocle, Mosco, Zenone, Epicuro) che invita con massime di saggezza al piacere, ricordando la brevità della vita.

Infine, tengo ad esprimere un apprezzamento per la qualità della riproduzione nel IV volume delle quattro tavole del Marc. gr. 447 (coll. 820), un bel esempio di minuscola pura di fine IX inizio X secolo, già prodotto in diverse collezioni di fac-simili, testimonio fondamentale per la tradizione del testo di Ateneo e opera di Giovanni il Calligrafo, cui si aggiungono quattro relative all’editio princeps del 1514 e alle edizioni di J. Bedrot e Chr. Herlin del 1535 e di I. Casaubon del 1597, benemerito del testo di Ateneo.

In conclusione, la pubblicazione italiana dei Dotti a banchetto di Ateneo non può che essere salutata con immensa ammirazione e profondo riconoscimento. Nel panorama delle traduzioni di autori classici in Italia la scelta di editare un’opera di indubbio e fondamentale interesse nei diversi ambiti di ricerca si presenta come un unicum, tanto più apprezzabile quanto più numerose sono le pubblicazioni o le ristampe di testi più e più volte offerti al pubblico (non tutte ugualmente affidabili), paragonabile, per certi aspetti, a quella che anni or sono fu alla base della decisione della Laterza di rendere finalmente fruibile il testo delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, affidato alle cure del solo Marcello Gigante (Bari 19983). Le indicazioni e i dubbi che a vario titolo ho avanzato nella presente recensione non vogliono assolutamente diminuire il pregio, l’interesse ed il valore di questa monumentale ,fatica‘: esse dimostrano ancora una volta quanto sia difficile e quali numerose competenze richieda pubblicare un testo come i Deipnosofisti di Ateneo; testo che, per le sue innumerevoli implicazioni, aperto com’è a svariati metodi di lettura e di indagine, non dovrebbe mancare nelle case degli studiosi. Opere del genere fanno bene non solo alla cultura classica, ma alla cultura in generale. Piuttosto, il mio augurio è che la Salerno Editrice decida in futuro di proporne un’edizione in brossura, più economica, in modo da avvicinare alle lettura di Ateneo il più vasto pubblico di cultori, che non potrà certo rimanere deluso dalla piacevolezza del contenuto, dalla prelibatezza e dalla rarità delle informazioni, dal sapore delicatamente piccante e, talora, apertamente divertito di questa narrazione.

Eugenio Amato, Salerno (Italia)
eugeamat@virgilio.it



[1] L’opera è disponibile anche in edizione di pregio, a tiratura limitata, con i volumi rilegati in pelle e stampata su carta Magnani di Pescia.

[2] Mi riferisco al recente volume edito da D. Braund e J. Wilkins, Athenaeus and his World. Reading Greek Culture in the Roman Empire, Exeter 2000. Un secondo colloquio su Ateneo, organizzato dallo stesso Wilkins e da Christian Jacob, si terrà alla ,Bibliothèque Nationale de France‘ (Tolbiac) nei giorni 18-20 dicembre 2003. Si veda la circolare, con le indicazioni degli argomenti, al sito http://www.ehess.fr/centres/GDR/Athenee/Athenindex.html.

[3] Cf. J. Martin, Symposion. Die Geschichte einer literarischen Form, Paderborn 1931.

[4] Naturalmente, Jacob dà ottime indicazioni anche sul genere dell’opera e i suoi rapporti con i modelli precedenti (in particolare Plutarco), sul contesto storico alessandrino in cui Ateneo si trova a lavorare, sul circolo di Larense e la consistenza della sua biblioteca, sulla struttura dell’opera e lo svolgimento del banchetto, sulla caratterizzazione dei personaggi e il linguaggio usato.

[5]Cf. P. Counillon, Edition critique de la Périégèse de Denys, thèse de 3e cycle, Université de Langue et Lettres de Grenoble III, 1983, 19-20. Mi permetto, tuttavia, di rimandare ad un mio contributo (Note testuali ed esegetiche alla Descriptio orbis di Dionisio d’Alessandria) in corso di stampa in: Arctos 36 (2002).

[6]Mi riferisco agli studi di C. Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto, trad. it. Milano 1966; Dal miele alle ceneri, trad. it. Milano 1970; L’origine delle buone maniere a tavola, trad. it. Milano 1971) e di M. Douglas (Antropologia e simbolismo, trad. it. Bologna 1985).

[7]Su questo aspetto molto si è scritto ultimamente. Vorrei qui almeno ricordare i saggi raccolti da S. Goldhill, Being Greek under Rome.Cultural Identity, the Second Sophistic and the Development of Empire, Cambridge 2001 e soprattutto il volume di T. Whitmarsh, Greek Literature and the Roman Empire. The Politics of Imitation, Oxford 2001, il quale a conclusione della sua ricerca, richiamando l’autorità di S. Hall, scrive: „Cultural identity is not innate, but constructed and vied for in social space. In Stuart Hall’s terms, it is ‘not an essence but a positioning’ “ [295].

[8]Cf. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, trad. it. Bologna 1983.

[9] È quanto emerge dagli studi di C.M. Counihan, The Anthropology of Food and Body. Gender, Meaning and Power, London-New York 1999 e dal volume di P. Scholliers (ed.), Food, Drink and Identity, Oxford 2001.

[10] Cf. P. Garofalo, Intorno Sibari e Turio, Napoli 1899, 123-212 [libro XII]; G. Turturro, Ateneo. I Deipnosofisti (o Sofisti a banchetto), Bari 1961 [libri I-II]; A. Paradiso, Ateneo. Schiavi e servi, Palermo 1990 [VI 263a-275b]; E. Cavallini, Ateneo di Naucrati. Il banchetto dei sapienti, Sulle donne, Bologna 1998 [libro XIII].

[11] Manca un’avvertenza alla traduzione (anche con l’indicazione dei criteri seguiti nella trascrizione e nella resa dei numerosissimi nomi di animali, piante e oggetti antichi) comune a tutti i curatori.

[12] Scrive F. Fuhrmann (Antico e moderno, Bari 1992, 63): „Una traduzione non deve contenere alcun errore; dev’essere eseguita con meticolosa cura, e deve leggersi come se si leggesse l’originale“.

[13] Vedi F. De Martino, in: A. H. Sommerstein, THEATRON. Teatro greco, Bari 2000, 8 n. *.

[14] Athénée de Naucratis, Les Deipnosophistes, livre I et II, texte établi et traduit par A. M. D. avec le concours de Ch. Astruc, Paris 1956.

[15] Ateneo, Banquete de los Eruditos, Libros I-II, introducción, traducción y notas de L. R.-N. G., Madrid 1998.

[16] Segnalo un unico refuso: Lauttra per Leuttra (p. 1509 n. 2).

[17] La stessa confusione colpisce la nota 3 di p. 1796, che rimanda ad un inesistente Bowra 1938b (di M. C. Bowra viene elencato per lo stesso anno solo un articolo apparso in: AJPh, ma senza alcun interesse per il passo di cui alla nota 3), laddove, invece, si dovrebbe, forse, rinviare a M. C. Bowra, Early Greek Elegists, Oxford 1938, evidentemente saltato nella composizione del libro.

[18] La studiosa salernitana esamina circa una ventina di passi dei Deipnosofisti.